In principio fu il turno di Giovanni Pecora, poi arrivò quello di Rosy Canale. Infine quello di Claudio La Camera. Tutti paladini dell’antimafia passati dalle stelle della difesa del nobile principio di legalità alle stalle di procedimenti penali direttamente connessi con la loro attività istituzionale.

Il "caso" Pecora

Nel 2012, scoppiò il caso della famiglia Pecora, grazie ad un articolo del giornalista Agostino Pantano, che dimostrò come la stessa risiedesse nel palazzo di un boss di Polistena. Giovanni Pecora, vicepresidente della fondazione antimafia “Antonino Scopelliti” e padre di Aldo, presidente di “Adesso ammazzateci tutti” rivolse al giornalista parole offensive, per le quali la Corte d’Appello di Reggio Calabria, lo scorso giugno, dopo un’assoluzione in primo grado, lo condannò per diffamazione aggravata ad una pena di 600 euro di multa, più il risarcimento nei confronti di Pantano.

Rosy Canale accusata di truffa 

Nel 2013, l’operazione Inganno scoperchiò un calderone da cui uscì parecchio ridimensionata la figura della passionaria Rosy Canale. La leader del movimento “Donne di San Luca” fu accusata di truffa, per aver utilizzato parte di un finanziamento di 160mila euro, destinato alla sede dell’associazione, per scopi di natura personale. Così come un altro finanziamento da 40mila euro. Per la Canale, in primo grado, i giudici hanno stabilito una condanna a 4 anni di reclusione.

Al via il processo per Claudio La Camera

Ha da poco iniziato il suo processo, invece, Claudio La Camera, accusato di truffa aggravata e falsità ideologica. Ex presidente del museo della ‘ndrangheta, La Camera è accusato di aver messo in piedi una truffa da oltre 430mila euro. Fatture false, rimborsi gonfiati per l’acquisto di impianti di videosorveglianza. E poi spese per cene, taxi, auto noleggiate, viaggi ingiustificati, ipad, pinze per il bucato, articoli di modellismo e un pollo in lattice per il cane.


Il tutto con buona pace dell’antimafia.