Le dietrologie sulla cattura del superboss e il peggioramento delle condizioni dell’anarchico in sciopero della fame hanno innescato un dibattito serratissimo sul carcere duro e uno scontro politico senza precedenti
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Una strana congiunzione astrale sembra influenzare la cronaca giudiziaria delle ultime settimane, con il dibattito politico che si avvolge in spire sempre più strette intorno al tema del 41 bis, cioè il regime carcerario più duro, riservato a mafiosi e terroristi che si rifiutano di collaborare.
Il 16 gennaio scorso viene arrestato Matteo Messina Denaro. L’ultimo Padrino, la chimera vagheggiata da generazioni di poliziotti e carabinieri diviene realtà dopo 30 anni di latitanza. L’unicorno esiste, e indossa un montone griffato e occhiali vintage a goccia. Poche ore e il superboss è già al 41 bis, il regime carcerario più duro. Tortura di Stato, per alcuni. Per altri strumento indispensabile per battere mafia e terrorismo, l’unico vero incentivo fisico e psicologico che può spingere a collaborare con la Giustizia. Anche se questa ratio non è esplicita nella norma, formalmente finalizzata a evitare che alcuni criminali particolarmente pericolosi possano continuare a gestire i propri affari anche da dietro le sbarre
L’euforia iniziale per l’arresto si spegne presto. La retorica della vittoria dello Stato arretra davanti ai dubbi alimentati dai particolari di una latitanza che assomiglia sempre più a una vita normale: donne, relazioni sentimentali, una macchina, una casa, selfie con gli amici, una malattia mortale.
Perché è stato arrestato proprio ora? Perché dopo così tanti anni durante i quali ha potuto vivere la sua vita indisturbato? Un arresto annunciato dall’amico dei fratelli Graviano, Salvatore Baiardo, che nella ormai celeberrima intervista concessa a Giletti, annuncia - prima che si consumi - l’epilogo di 30 anni di latitanza.
Un clamoroso vaticino che sembra confermare ciò che tanti pensano: si è fatto prendere, si è consegnato. In cambio di cosa? Risponde indirettamente l’ex procuratore di Palermo, oggi senatore del M5s, Roberto Scarpinato, che al Tg1 dichiara: «Baiardo parla in tv e annuncia che Matteo Messina Denaro verrà arrestato e nonostante questo lui resta dov'era. C'è qualcosa che non va». E poi: «La mia preoccupazione è che passi nell'opinione pubblica l'idea che la mafia sia stata sconfitta e che si smantelli il 41 bis».
Più o meno esplicitamente comincia a insinuarsi l’indicibile tesi di una trattativa Stato-mafia nella quale il prezzo del successo investigativo sarebbe la fine del carcere duro.
Un’insinuazione così perniciosa che, a metà gennaio, la premier Giorgia Meloni sbotta: «Trattativa con la mafia? Non capisco - dice a Quarta Repubblica, su Rete 4 -. Abbiamo difeso il carcere duro, il primo provvedimento di questo governo è stato la difesa del carcere duro. Messina Denaro andrà al carcere duro perché esiste ancora grazie a questo governo. Quindi su cosa avremmo fatto la trattativa?».
Ma mentre tutto questo accade, l’anarchico Alfredo Cospito, detenuto da 10 anni, è già in sciopero della fame. Ha iniziato tre mesi fa per protestare proprio contro il 41 bis (dovrà restarci altri 3 anni). Ora le sue condizioni di salute sono precipitate e la sua vicenda ha conquistato le prime pagine dei giornali, monopolizzando l’attenzione della politica.
Fino all’ultimo capitolo, il disastroso scivolone del capogruppo di Fdi alla Camera, Giovanni Donzelli, che ha puntato il dito contro i parlamentari di centrosinistra che erano andati a sincerarsi delle sue condizioni in carcere: «State con i mafiosi e i terroristi o dalla parte dello Stato?». Per dare corpo alle sue accuse, rivela in aula alcune informative riservate del Dap, dalle quali emerge che a fare il tifo per Cospito sono mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti al 41 bis. Circostanza talmente ovvia che non avrebbe neppure bisogno di essere messa nero su bianco per avere spessore.
Scoppia il caos politico. Le trasmissioni di approfondimento cominciano a promuovere sondaggi sul 41 bis: È utile? È giusto? O è una barbarie? Pochi rispondono “non so”, la stragrande maggioranza si schiera a favore (per ora). Ma non si parla d’altro, non si legge altro.
Le vicende di Matteo Messina Denaro e Alfredo Cospito, per quanto assolutamente aliene l’una all’altra, sono collegate da un filo rosso sottile ma evidente: il carcere duro. E ciò che fino a qualche settimana fa era relegato le istanze degli avvocati difensori e nelle pagine dei giornali di nicchia, oggi è diventato un argomento da bar e da rissa politica che domina il dibattito. Non sarà una “trattativa” con lo Stato, ma di certo se ne parla come non mai.