L'inchiesta Ten - condotta dalla squadra mobile della questure di Reggio Emilia, Bologna e Crotone e dalla guardia di finanza di Reggio Emilia - ha consentito di «disvelare l'esistenza e l'operatività del gruppo mafioso Arabia, sodalizio caratterizzato dall'ampia disponibilità di armi e dedito alle estorsioni, alle truffe, nonché alla ricettazione di beni provento di furti a ditte di autotrasporto, commessi al fine di agevolare l'attività dell'associazione mafiosa», come illustrato in conferenza stampa. In manette è finito Giuseppe Arabia, classe '66' detto “Pino u' nigro”, ritenuto a capo del sodalizio, già condannato con sentenza passata in giudicato per associazione a delinquere di stampo mafioso. È il fratello del boss Salvatore Arabia, ucciso nel 2003 a Steccato di Cutro nel corso della guerra di mafia tra le famiglie Grande Aracri e Dragone, omicidio per il quale il boss Nicolino Grande Aracri è stato condannato all'ergastolo. Salvatore Arabia - detto “Pett i' Palumba” era considerato infatti il luogotenente del boss Antonio Dragone.

Insieme a Giuseppe, sono finiti in carcere anche i nipoti Giuseppe classe '89 e Nicola Arabia classe '85, figli di Salvatore. Misure cautelari anche nei confronti dei sodali Salvatore Messina, Salvatore Spagnolo e Giuseppe Migale Ranieri, classe '78 (omonimo del suo avvocato del foro di Reggio Emilia).

Stando a quanto ricostruito dagli inquirenti - grazie anche alle rivelazioni dei collaboratori di giustizia Giuseppe “Pino” Giglio e Salvatore Cortese, gli Arabia «operando in sinergia con i loro sodali, hanno posto in essere condotte tipicamente mafiose, con l'adozione di modalità violente e comunque intimidatorie, sia a scopo ritorsivo e punitivo, sia per imporre, con la forza di intimidazione promanante dall'appartenenza al sodalizio 'ndranghetistico emiliano, la propria volontà».

Tra le carte dell'ordinanza spicca anche un episodio nel quale un affiliato è stato costretto a inginocchiarsi a baciare i piedi del boss per aver collaborato con le forze dell'ordine. Tra l'altro, nell'agire con metodo mafioso, il gruppo ha dimostrato di disporre anche di armi, custodite in luoghi nascosti grazie alla complicità dei sodali.

In una circostanza, nel corso delle indagini, la Polizia di Stato ha sequestrato un fucile, abilmente occultato all'interno di un gommone custodito all'interno di un camion, su cui era stato caricato del tutto all'insaputa del trasportatore. Ulteriori approfondimenti investigativi, svolti con l'ausilio della Guardia di Finanza di Reggio Emilia, hanno permesso di ricostruire numerose frodi fiscali, confermando, ancora una volta, come il sodalizio 'ndranghetista operante in Emilia sia anche specializzato nell'emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Il meccanismo fraudolento posto in essere dagli indagati mediante l'emissione di fatture per operazioni inesistenti per un totale di 1,8 milioni di euro in particolare di 12 principali società utilizzatrici, che hanno fruttato in pochi anni al sodalizio criminale un guadagno pari a 326.435 euro, somma oggetto di sequestro preventivo disposto dal gip tramite ordinanza ed eseguito congiuntamente da Guardia di Finanza e Polizia di Stato. Contestualmente all'esecuzione del sequestro preventivo sono state perquisite anche le sedi di sei società, che, sulla base dei riscontri investigativi eseguiti, risultavano essere coinvolte nel sistema di frode.