'NDRANGHETA STRAGISTA | Il collaboratore Gaetano Albanese svela: «Lo dissi, ma non importò a nessuno. Comprai armi per difendermi e oggi sono in carcere». In quei verbali le dichiarazioni sulle riunioni fra calabresi e siciliani per le stragi di mafia
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«Sono stato minacciato, mi hanno detto cosa avrei dovuto dire nel processo “Genesi”. L’ho fatto presente a chi di dovere, ma non gliene è importato nulla a nessuno». Si avverte tutta la sofferenza di chi si è sentito non ascoltato, nelle parole del collaboratore di giustizia Gaetano Albanese, oggi impegnato nella deposizione al processo “'Ndrangheta stragista”, che vede imputati Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano con l’accusa di essere i mandanti dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo e degli agguati agli altri esponenti dell’Arma.
Il killer senza gradi
Albanese è un ex affiliato alle famiglie Piromalli-Molè, a partire dai primi anni ’90. Ma grazie alle sue numerose conoscenze entra in contatto ben presto anche con le famiglie più importanti della zona del Vibonese. «Il nostro territorio – spiega rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – era Candidoni, Dinami, San Pietro di Caridà». A capo della famiglia c’era suo fratello Antonio e tutti erano molto vicini alla storica cosca dei Mancuso di Limbadi.
Sul casellario giudiziario di Albanese si leggono reati di un certo peso, come omicidi ed estorsioni. Lui, però, giura di aver sempre odiato certe situazioni, come i gradi e le doti: «Non mi sono mai interessato di ciò».
I falsi pentiti
Poi il collaboratore svela un particolare che rientra a pieno titolo fra le strategie più note della ‘ndrangheta: creare falsi pentiti. La sua scelta pilotata di saltare il fosso risale al febbraio del 1995. «All’epoca – ribadisce – si parlava di fare dichiarazioni come falsi collaboratori, con l’obiettivo di dire cose diverse da quelle di Annunziato Raso e smontarle nel processo “Tirreno”. Per qualche mese è stato così. Poi, però, ho iniziato a dire davvero cosa era successo».
Le minacce
Il racconto di Albanese si snoda poi sui processi nei quali è stato chiamato a deporre. Fra questi, quello “Genesi”. Ed è in questo momento che il collaboratore spiega delle minacce subite: «Dottore – afferma rivolgendosi a Lombardo – sto in carcere da tre anni e mezzo. Mi hanno trovato delle armi in casa. Ma io voglio dire la verità: le ho comprate perché sono stato minacciato. Quando ero sotto protezione, qualcuno mi ha trovato ed è venuto a dirmi cosa avrei dovuto dire al processo. Ecco perché ho dovuto dire che le cose affermate in precedenza non erano vere. L’ho fatto presente a chi di dovere, ma non gliene è fregato nulla». «Invece era vero?» replica il pm. Ed Albanese conferma: «Era vero, sì. Oggi lo posso confermare perché sto in carcere e non ho problemi che mi si possa trovare».
Le riunioni con i siciliani
Ed è forse un particolare non trascurabile quello che emerge subito dopo: le dichiarazioni in questione sono quelle che riguardano anche le riunioni che si svolsero alla presenza dei siciliani: «Si parlava di riunioni contro lo Stato. Erano presenti uomini di Totò Riina. So, però, che non c’era la volontà di aderire a quella richiesta, si parlava di uccidere magistrati, carabinieri, poliziotti».
Albanese non sa molto di più, ma queste informazioni sono già sufficienti per comprendere il clima nel quale si trovò il collaboratore che ebbe modo di vivere indirettamente le fasi preparatorie degli incontri alla masseria dei Molè, luogo di ritrovo degli esponenti principali dei clan della Piana ed antico covo di latitanti.
Il processo è stato aggiornato al prossimo venerdì per l’escussione di altri collaboratori di giustizia.
Consolato Minniti
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