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«Matacena parlò davanti a tutti i rappresentanti delle famiglie di ‘ndrangheta di Reggio Calabria. Mancavano soltanto i Tegano. Spiegò il suo progetto di fare della città una piccola Las Vegas o Montecarlo».
Siamo nel 1994 e Giuseppe Aquila ha da pochissimo ottenuto un lusinghiero risultato elettorale. Alla discoteca-pizzeria “Papirus” di Gallico, si radunano i maggiori rappresentanti delle cosche cittadine. Sono chiamati a raccolta per fare festa con Aquila, ma soprattutto con Amedeo Matacena Junior, impegnato in un’importante campagna elettorale per le elezioni politiche. È questo il ricordo più importante emerso nell’aula bunker di Reggio Calabria, dove ieri ha deposto il collaboratore di giustizia Nino Fiume, nel processo “Breakfast” che vede imputati, fra gli altri, la moglie di Matacena, Chiara Rizzo, e l’ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola, accusato di aver dato una mano all’ex parlamentare di FI per sottrarsi alla cattura, a seguito della sentenza definitiva di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa.
Sono state cinque ore molto intense di deposizione, in cui Fiume – incalzato dalla domande del pm Giuseppe Lombardo– ha ripercorso tappe e momenti di un periodo storico assai importante per la città di Reggio Calabria. Sono gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra di mafia, quelli in cui gli accordi della pax prendono il sopravvento sulla sanguinaria contrapposizione fra i cartelli destefaniano e condelliano.
«Erano ormai una cosa sola», dice il collaboratore con sicurezza. Quelli che un tempo si facevano la guerra, stanno seduti allo stesso tavolo a festeggiare un importante risultato elettorale. E Nino Fiume, all’epoca persona di assoluta fiducia della famiglia De Stefano, sta lì, insieme al rampollo del clan, Giuseppe. Arrivano sul finire della serata, racconta il pentito, e succede qualcosa di molto importante: «Tutti si alzano in piedi a salutare Giuseppe De Stefano. Lui non si era mai voluto esporre molto con la politica, ma in segno di rispetto, si alzarono a baciarlo». Insomma, sebbene De Stefano non avesse ancora ricevuto l’investitura ufficiale di capo crimine, di fatto, aveva già ottenuto il rispetto e la riverenza che si dà a tutti i grandi boss, da parte della base.
«Ci fu un momento d’imbarazzo – spiega Fiume – anche perché Matacena non si aspettava una cosa così». Il collaboratore riferisce che l’ex parlamentare di Forza Italia stava presentando il suo programma politico: «C’era quell’idea della destra che doveva andare contro una sinistra che stava portando avanti la magistratura. Matacena ha avuto sempre il pallino del turismo. Voleva fare di Reggio una piccola Las Vegas, o Montecarlo». Molto insistente la domanda del pm Giuseppe Lombardo al pentito su quali argomenti avesse toccato Matacena nel suo discorso, se si parlò mai di una pace necessaria. E Fiume non si lascia pregare: «Certo, dottore. Matacena parlò della necessità di deporre le armi, di mantenere la pace per poter puntare sul turismo».
Spunta, poi, di nuovo quel “partito degli uomini”, già emerso in altre circostanze. Anche in quel caso Matacena fece un esplicito riferimento. Anzi, pensò a qualcosa di più. Secondo Nino Fiume, l’ex parlamentare chiese ufficialmente a Giuseppe De Stefano e Domenico Condello “gingomma” se volessero candidarsi alle elezioni. Una proposta che fu accolta con una risata generale, perché si sapeva benissimo che era del tutto impossibile ipotizzare una candidatura per due noti esponenti della malavita calabrese. Ma quell’incontro del 1994 non fu soltanto una mera occasione per festeggiare la vittoria di Aquila.
Fiume la chiama “profezia”, di un incontro “precursore”. Il motivo? La presenza, nello stesso momento, di Giuseppe De Stefano e Domenico Condello. Qualcosa che avrebbe trovato compimento sette anni dopo. Un progetto, quello della ‘ndrangheta unitaria, che aveva gettato le basi nel momento in cui fu siglata quella pax mafiosa ai cui negoziati prese parte direttamente Nino Fiume. Fatti che il pentito riferisce nuovamente ieri in aula, ribadendo come quel momento storico abbia rappresentato lo spartiacque necessario per la ripresa del business mafioso in riva allo Stretto.
Consolato Minniti