Il ricorso in Cassazione contro le assoluzioni dal reato di violenza privata nei confronti del collaboratore di giustizia. Il ruolo dell’ex compagna, la promessa di regalargli un bar e di vedere più spesso la figlia se avesse «restituito l’onore» al casato mafioso
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Una vera e propria «strategia di accerchiamento psicologico». Così la Procura generale di Catanzaro definisce le pressioni che la famiglia di Emanuele Mancuso avrebbe esercitato sul collaboratore di giustizia – tra luglio 2018 e maggio 2019 – per spingerlo a desistere nella suo intento di parlare con la Dda di Catanzaro. Un intento nato mentre si trovava in carcere, spinto dal desiderio di dare alla propria figlia, che stava per nascere, un avvenire lontano dalle logiche mafiose. Un lungo e accidentato percorso quello di Emanuele Mancuso al quale, dopo una estenuante battaglia, l’11 dicembre scorso, il Tribunale per i minorenni di Roma, ha riconosciuto la piena potestà genitoriale e ha disposto l’affidamento in via esclusiva della propria bambina.
Un percorso altalenante sta avendo anche la vicenda processuale relativa alle pressioni che la famiglia Emanuele Mancuso avrebbe esercitato sul ragazzo, appena trentenne, quando nel 2018 ha deciso di saltare il fosso e parlare coi magistrati della Dda di Catanzaro. La storia racconta di pressioni per farlo desistere, anche usando come mezzo la figlioletta appena nata, o cercando ragioni per farlo passare per pazzo. Anche con le buone ci avrebbero provato, promettendogli una vita lontano dalla Calabria, promettendo di comprargli un bar da gestire «lontano dal contesto vibonese». «Hai bisogno di tutti noi... devi curarti dalle tue dipendenze», gli scriveva la compagna di allora, Nensy Vera Chimirri. «Puoi tornare indietro. Io ci sarò con te. Come tutti», scriveva in una lettera alla quale allegava una foto della loro figlia appena nata in braccio al fratello Giuseppe. Una serie di strategie che la Chimirri avrebbe messo in atto con la regia della madre e la zia di Emanuele. E per un po’ questo «accerchiamento psicologico» ha funzionato, anche a causa di alcune criticità nella gestione del piano di protezione e ai mancati colloqui visivi con la figlia. Emanuele Mancuso, che aveva cominciato a collaborare il 18 giugno 2018, tentenna, la madre gli promette che «se avesse fatto l’uomo, restituendo l'onore alla famiglia» uscendo dal programma di protezione ed espiando in carcere la pena detentiva, gli avrebbe permesso in cambio di vedere la propria figlia cinque volte al mese, gli avrebbe dato soldi e vestiti, e si sarebbe occupala delle sue spese legali. Emanuele Mancuso è uscito dal programma di protezione il 20 maggio 2019 per poi rientrarvi, pienamente e definitivamente, poco dopo.
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La latitanza di Giuseppe Mancuso e il “contributo” di Nensy Chimirri
In mezzo a tutta questa vicenda c’è anche la latitanza del fratello di Emanuele, Giuseppe Salvatore Mancuso che, detenuto agli arresti domiciliari, si è sottratto dalla misura cautelare per oltre un anno a partire dal sei settembre 2018, esattamente dal giorno dopo in cui Nensy Vera Chimirri, era stata in carcere a parlare col compagno chiedendogli con insistenza se avesse fatto dichiarazioni sul padre o sul fratello.
«Nella sentenza impugnata non si è valorizzato che il giorno successivo a tale colloquio, il 6 settembre 2018, Mancuso Giuseppe Salvatore, fratello del collaboratore di giustizia, evadeva dagli arresti domiciliari divenendo latitante», scrive il sostituto procuratore generale Raffaela Sforza nel ricorso per Cassazione impugnato contro una sentenza d’appello che ha ribaltato le tesi accusatorie.
Se in primo grado, infatti, con rito abbreviato, Nensy Vera Chimirri era stata condannata a quattro anni anche per il reato di favoreggiamento aggravato, la Corte d’Appello di Catanzaro, presidente Giancarlo Bianchi, il 18 luglio scorso aveva assolto l’imputata da questo reato e aveva riqualificato il reato di violenza privata e induzione a non rendere dichiarazioni nella sola tentata violenza privata, condannando Chimirri a 10 mesi. È un capo di imputazione che riguarda le pressioni che tutta la famiglia Mancuso avrebbe esercitato sul collaboratore Ma procediamo con ordine.
I due processi
Il 18 luglio 2023 la Corte d’Appello ha emesso due sentenze riguardanti la vicenda di Emanuele Mancuso – che è parte civile, assistito dall’avvocato Antonia Nicolini –: una sul rito abbreviato, che coinvolge Nensy Vera Chimirri e Francesco Paolo Pugliese (accusato di reati in materia di armi e di avere favorito la latitanza di Giuseppe Mancuso), e una sul rito ordinario di primo grado che coinvolge Giuseppe Salvatore Mancuso, fratello del collaboratore, il padre Pantaleone Mancuso, detto “l’ingegnere”, la madre Giovanna Del Vecchio, la zia Rosaria Del Vecchio e la sorella Desiree Mancuso. Rispetto al primo grado le condanne vengono ridimensionate: 5 anni a Giuseppe Mancuso (5 anni e 6 mesi in primo grado); un anno e 4 mesi per Pantaleone Mancuso (4 anni in primo grado); un anno e 4 mesi per Giovanna Del Vecchio (1 anno e 8 mesi in primo grado); assoluzione per Rosaria Del Vecchio (1 anni e 8 mesi in primo grado); assoluzione per Desiree Mancuso (assolta anche in primo grado); 2 anni e 2 mesi per Francesco Pugliese (6 anni in primo grado al termine del rito abbreviato); 10 mesi per Nency Vera Chimirri (4 anni in primo grado al termine del rito abbreviato).
Tolta l’aggravante mafiosa dai delitti in materia di armi nei confronti di Giuseppe Mancuso e Francesco Pugliese.
La Procura generale ha proposto appello per Cassazione sulla posizione di Pantaleone Mancuso, Giovanna Del Vecchio, Giuseppe Mancuso, Desiree Mancuso, Nensy Vera Chimirri, Francesco Pugliese e sull’annullamento dell’aggravante mafiosa sulla detenzione delle armi.
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La «strategia di accerchiamento psicologico»
Dai reati di violenza privata e induzione a non rendere dichiarazioni è stato assolto Giuseppe Mancuso, colui che il 20 giugno 2018 avrebbe contattato «dal carcere di Siano la madre, Giovanna Ortensia del Vecchio, per informarla di aver appreso - dalle "guardie", che "sono peggio degli informatori e sono andati a dirglielo in cella" - che Emanuele Mancuso aveva iniziato a collaborare con l'Autorità giudiziaria - confermando che nella notte precedente lo aveva chiamalo dalla finestra, dicendogli “… tamburro che stai combinando”».
Per la stessa accusa i genitori di Emanuele Mancuso sono stati condannati per il solo reato di tentata violenza privata. Per le pressioni a Emanule Mancuso è stata del tutto assolta la sorella Desiree. Su questi punti il pg Maffia ha chiesto l’annullamento della sentenza alla Cassazione.
Secondo i giudici d’appello le pressioni esercitate su Emanuele Mancuso «non erano causalmente orientate verso un interrogatorio specifico ma bensì dirette a far uscire il collaboratore dal programma di protezione…».
Ma, fa notare la Procura generale, dalle stesse testimonianze di Emanuele Mancuso si è avuto modo di accertare che «rilevantissimi erano gli interessi non soltanto individuali ma collettivi, per la tutela dell’esistenza stessa della cosca di appartenenza e del mantenimento del primato e della direzione della stessa da parte proprio dei familiari del Mancuso Emanuele. Si è trattato dunque di una pluralità di condotte che si sono sviluppate attraverso una vera e propria strategia di accerchiamento psicologico del collaboratore da parte di soggetti comunque collegati allo stesso da legami familiari strettissimi».
Per quanto riguarda il reato di induzione a non rendere dichiarazioni, l’accusa fa notare che «è un reato che mira a sanzionare “qualsiasi condotta” funzionale ad alterare il processo decisionale di chi “legittimamente” può scegliere di astenersi dal rendere dichiarazioni».
Il ruolo di Nensy Vera Chimirri
«Nella sentenza impugnata non si è tenuto conto che, in conseguenza delle continue pressioni e minacce esercitate da Nensy Vera Chimirri, il collaboratore di giustizia, nel primo periodo della sua collaborazione con la giustizia, non ha dichiarato tutto ciò che sapeva in ordine ai fatti illeciti commessi dal padre e dal fratello», scrive il pg Sforza. Un fatto che viene confermato dallo stesso Emanuele Mancuso: «… mi ha più volte chiesto di non parlare di mio fratello e di mio padre e mi ha anche invitato a lasciare la collaborazione con l’autorità giudiziaria…».
«Quindi, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, l’intervento della Chimirri aveva inciso in maniera rilevante sulle investigazioni in corso a carico del padre e del fratello del collaboratore di giustizia, inducendo quest’ultimo a non parlare degli stessi», conclude l’accusa.
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L’aggravante mafiosa sulla detenzione e ricettazione di armi
L’accusa chiede ai giudici della Suprema Corte di annullare la sentenza d’Appello anche riguardo l’esclusione dell’aggravante mafiosa sui reati in materia di armi. Giuseppe Mancuso e Francesco Pugliese sono, infatti accusati di avere detenuto una beretta 9x21 con matricola abrasa (dunque clandestina) e una carabina calibro 30.06 con tanto di ottica di puntamento (un’arma risultata rubata a Torino). Vista la provenienza delle due armi, gli imputati sono anche accusati di ricettazione. Ma secondo i giudici d’appello non vi è aggravante mafiosa perché le armi sarebbero state usate per difesa personale (visto il momento di fibrillazione all’interno della cosca e il tentato omicidio di Dominic Signoretta, vicino ai Mancuso). Di diverso parere quello dell’accusa: «La sentenza impugnata è contraddittoria perché, da un lato, riconosce la sussistenza della circostanza aggravante mafiosa in relazione ai reati di favoreggiamento e procurata inosservanza di pena dall’altro la esclude per i reati in materia di armi», scrive Sforza. Secondo il magistrato Maffia l’uso della armi «da parte di una cosca ha sempre una connotazione offensiva quandanche si voglia rappresentarne un connotato difensivo. Con un tale ritrovamento è stata invece confermata la disponibilità di armi da parte della cosca, ancorché a carico di un singolo appartenente, e l’aiuto fornito dal Pugliese era diretto certamente anche a preservare le armi del gruppo criminale».