«Ho partecipato all’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, che doveva prendere in mano il maxi processo a Cosa nostra». Sono parole che pesano come macigni quelle del pentito Maurizio Avola, collaboratore chiave per riscrivere la storia delle stragi di mafia. L’audizione di Avola è attualmente in corso nell’aula del Cedir di Reggio Calabria, dove il collaboratore risponde alle domande del procuratore Lombardo. È evidente che le risposte del pentito debbono tenere conto dell’indagine in corso proprio sul delitto del magistrato originario di Campo Calabro e, dunque, del segreto investigativo.

 

«Mi hanno informato dell’omicidio cinque giorni prima – spiega Avola – ed a farlo sono stati Aldo Ercolano e Marcello D’Agata. Mi risulta che, a discutere di questo delitto, c’erano Eugenio Galea ed Ercolano, nel corso di un incontro tenutosi a Trapani. Era la primavera del 1991. A quella riunione parteciparono pure Matteo Messina Denaro e suo padre, quest’ultimo era contrario all’omicidio».

Per tutti c’era una direttiva ben precisa: «Dovevamo rivendicare gli attentati con la sigla Falange Armata, anche se non eravamo stati noi a compierli. Ce lo disse Galea negli anni ’90. Lui lo apprese in una riunione in cui si stabilì che occorreva iniziare con le bombe e rivendicarle con quella sigla».

 

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