I rapporti tra ’Ndrangheta e Cosa nostra sono «accertati, risalenti, numerosissimi» e «coltivati nell'arco di decenni». Dagli scambi di favori per traffici di armi e droga, gli obiettivi comuni sono diventati altri. Il livello è salito e le due organizzazioni criminali hanno puntato «a condizionare e piegare la stessa vita dello Stato ai loro desiderata e ad insinuarsi nelle strutture istituzionali, occupandole».

Relazioni in comune e struttura simile: la ’Ndrangheta ha mutuato l’organizzazione interna della mafia siciliana, diventando «una struttura unitaria e piramidale, con un gruppo di famiglie che dominano su tutto il territorio nazionale e non, impegnando con la loro condotta l'intero panorama delle cosche di 'ndrangheta stanziate sulle diverse zone».

I giudici del processo di appello ’Ndrangheta stragista hanno confermato le condanne all’ergastolo di Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone per l'omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.

I loro ragionamenti, però, toccano molti altri ambiti: dai legami tra mafie fino al rapporto con la massoneria deviata e i Servizi segreti. È un pezzo di storia d’Italia che prende forma nelle 1.400 pagine della sentenza che analizza le accuse della Dda di Reggio Calabria, affidate al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo.

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Il vertice della struttura è individuato in due famiglie «storiche, De Stefano e Piromalli»: binomio a cui fanno riferimento decine di collaboratori di giustizia. Ai due clan del Reggino si unisce la famiglia Mancuso, «originariamente costola dei Piromalli e successivamente guadagnatasi sulla provincia vibonese una posizione di assoluta egemonia».

Come Cosa nostra, la ’Ndrangheta «si è dotata nel tempo di una sorta di super-associazione che si occupava dei delitti di maggior rilievo, ossia di quelle attività criminose che importavano il coinvolgimento di più cosche e che comunque incidevano sulla vita stessa dell'organizzazione».

Lo scambio di favori tra Cosa nostra e ’Ndrangheta

I collaboratori di giustizia offrono un vasto campionario di favori scambiati sull’asse Calabria-Sicilia. Francesco Onorato parla «di rapporti di "fratellanza" fra 'Ndrangheta e Cosa Nostra, indicando quali referenti dei siciliani in Calabria le famiglie De Stefano-Piromalli e Mancuso e aggiungendo che negli anni 79-81 alcuni latitanti calabresi erano stati ospitati a Mazara dal Vallo dall'allora capo mandamento Mariano Agate». Filippo Malvagna racconta di omicidi commessi in Calabria da parte di un killer catanese. Giuseppe Morano, del gruppo Piromalli-Molè, rivela «di aver saputo che il defunto boss reggino Paolo De Stefano aveva il "doppio battezzo", ossia la contestuale affiliazione anche alla mafia siciliana». Maurizio Avola, che si è autoaccusato dell’omicidio del giudice Scopelliti, conferma « che Paolo De Stefano era uomo di Cosa Nostra e che alla sua morte, avvenuta nel 1985, i referenti dell'organizzazione etnea erano le famiglie De Stefano e Piromalli». Giovanni Brusca racconta invece la storia di Antonio Salamone, ex capo mandamento di San Giuseppe Jato, che «aveva trovato rifugio in Calabria e che, con l'ausilio di esponenti o soggetti vicini alla 'ndrangheta, aveva tentato di "aggiustare" taluni processi in Cassazione».

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Uno dei passaggi chiave del patto è senza dubbio l’intervento dei siciliani «atto a far cessare la seconda guerra di mafia che ha insanguinato (si contavano oltre 600 morti delle opposte "fazioni") la città di Reggio Calabria tra l'autunno del 1985 (ossia successivamente all'uccisione del boss reggino Paolo De Stefano)», seguito dall’«aiuto della 'ndrangheta nell'assassinio del magistrato Antonino Scopelliti, avvenuto nell'estate del 1991». Anche Totò Riina avrebbe partecipato al tentativo di pacificare le cosche reggine, secondo cinque pentiti.

Il delitto Scopelliti e i rapporti storici tra calabresi e siciliani

L’omicidio del giudice Scopelliti è centrale in questa fase del ragionamento: «Un delitto “eccellente” come quello del magistrato calabrese», ucciso sulla provinciale tra Villa San Giovanni e Campo Calabro, « non poteva non avere il concorso territoriale della 'ndrangheta, non tanto e non solo della specifica zona di commissione dello stesso, quanto dei più alti vertici dell'organizzazione criminale, innanzitutto della provincia reggina». La morte del magistrato è un modo per pareggiare i conti dopo l’intervento dei siciliani per la pacificazione dopo centinaia di morti a Reggio.

Scopelliti «non si era voluto piegare alle richieste dell’organizzazione» sul maxi processo palermitano, che di lì a poco sarebbe stato discusso dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. È nei processi celebrati sul delitto del magistrato che «si apprende che Tommaso Buscetta aveva riferito che Giuseppe Piromalli era uomo d'onore affiliato a Cosa Nostra e che il collaboratore messinese Gaetano Costa aveva dichiarato che Giovanbattista Pullarà, strettamente legato a Totò Riina, gli aveva chiesto un contatto con il giudice Scopelliti, ma Costa l'aveva indirizzato verso il boss Giuseppe Piromalli». I legami forti tra Cosa nostra e ’Ndrangheta erano già emersi nei processi siciliani e i punti di riferimento erano le solite famiglie De Stefano e Piromalli.

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Calabresi e campani «la stessa cosa di Cosa nostra»

Tutti gli attentati «che dovevano essere commessi (si parlò anche di colpire un traghetto) dovevano essere rivendicati con la sigla "Falange Armata", sigla utilizzata per i gravissimi reati commessi in quel periodo in Italia e che per la prima volta fu adottata in occasione dell'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile». Nell’impasto mafioso appaiono così anche i servizi segreti: il delitto Mormile sarebbe nato proprio dall’opposizione dell’educatore carcerario agli incontri clandestini tra Domenico Papalia, vertice della ’ndrangheta al Nord, e 007 deviati.

Per l’ex boss Di Giacomo «i calabresi e i campani potevano essere considerati "la stessa cosa di Cosa Nostra", aggiungendo che era stata chiesta l'adesione della 'ndrangheta al progetto stragista deciso da un gruppo ristretto di Cosa Nostra (Riina, Bagarella, Graviano, Messina Denaro)».

Il materiale raccolto è immenso e dà conto di un interscambio tra le due associazioni: anche lo storico boss Nitto Santapaola sarebbe stato «fino al 1997 (…) a tutti gli effetti uno ’ndranghetista, per poi “passare” con i palermitani solo successivamente, e altresì il collaboratore Fiume, che per anni era stato vicinissimo a Giuseppe De Stefano, in quanto fidanzato della sorella, ha ribadito l’esistenza del legame tra Paolo De Stefano e Nitto Santapaola». Uomini di Cosa nostra avrebbero avuto contatti stretti con pezzi della ’ndrangheta milanese, «diretta emanazione dell'associazione reggina, a mezzo dei De Stefano, del congiunto Coco Trovato ( consuocero di Carmine De Stefano), nonché dei Papalia, in particolare di Domenico, con un ruolo di primo Il piano in tale contesto».

La triade De Stefano-Piromalli-Mancuso gestiva i rapporti con i vertici della mafia siciliana

La Cupola della ‘ndrangheta sarebbe nata nel 1991. Il pentito Foschini, vicino ai Papalia, dichiara «di avere appreso che prima di dar corso alle stragi siciliane, i boss calabresi si erano riuniti, manifestando la loro contrarietà, ma poi era stato ucciso un magistrato calabrese per fare un favore a Totò Riina». E altri collaboratori di giustizia ancora parlano «di un rapporto fra Giuseppe Graviano e Pino Piromalli, nato durante un periodo di comune detenzione».

Era la triade De Stefano-Piromalli-Mancuso a gestire i rapporti con i vertici della mafia siciliana. Lo racconta il collaboratore catanese Di Giacomo. È sempre lui a precisare «che l'adesione alla strategia stragista di Cosa Nostra era stata deliberata dalla Cupola calabrese», cioè dai tre clan egemoni.

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Del “comparato” fra Piromalli e Riina narra invece Giovanni Brusca, che lo fa risalire agli anni 70. Ancora Brusca precisa che «dopo il 1992 i rapporti tra i siciliani e i calabresi erano curati da Totò Riina e, dopo il gennaio 1993 (epoca dell'arresto di Riina, ndr) prevalentemente da Bagarella e Messina Denaro, pur non potendo escludere che fossero intrattenuti anche da Giuseppe Graviano». Anche Calogero Ganci, altro collaboratore di area palermitana, confermava che sia il padre che Totò Riina affermavano che i Piromalli erano persone influenti e costituivano il principale punto di riferimento di Cosa nostra rispetto alla 'Ndrangheta.

"Tanti ne ammazzano di giudici, che vedrai che lo levano 'sto 41 bis"

Rapporti stretti e risalenti nel tempo: Vincenzo Grimaldi, appartenente alla cosca Piromalli-Molè, dice di aver saputo che «Totò Riina si era recato presso la masseria dei Piromalli-Molè, per incontrare Nitto Santapaola, all'epoca latitante». E aggiunge «che le due organizzazioni criminose erano "una cosa sola" e che erano intervenuti scambi di killer per commettere omicidi, e inoltre che i Molè (federati dei Piromalli) si recavano una volta al mese in Sicilia per incontrare a Catania Santapaola e a Palermo Riina, per come appreso da Mommo Molè, quando il Grimaldi frequentava la loro masseria, centro operativo del gruppo».

Il suo correo Santo Asciutto, poi, lo avrebbe rassicurato riguardo al futuro del carcere duro perché «aveva appreso dai Piromalli che i siciliani avrebbero fatto eliminare l'articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, mediante il ricorso alla strategia stragista: "Tanti ne ammazzano di giudici, che vedrai che lo levano 'sto 41 bis", ed effettivamente era stato poi revocato il decreto di applicazione del carcere duro prima applicato ai danni di Grimaldi e Asciutto». Un altro passaggio inquietante perché rimanda alla considerazione iniziale dei giudici reggini: ’Ndrangheta e Cosa nostra avevano stretto un patto per «condizionare e piegare la stessa vita dello Stato ai loro desiderata».