Le indagini hanno smascherato un branco violento ma per una parte del paese la colpa è della vittima che «andava in giro in minigonna». L’umanità si perde tra parole lanciate come sassi contro la ragazzina vittima delle violenze
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«Cosa si aspettava? Se vai vestita in giro provocante è normale», «tutta colpa della mamma che è ninfomane e mandava la figlia in giro con la minigonna a 11 anni è normale che poi succede». È normale. È maledettamente normale. Che un branco di ragazzi violenti per anni in modo atroce una ragazzina di 14 anni è normale. Corre l’anno del Signore 2025 e siamo ancora costretti a sentirci dire che la colpa è nostra, è delle donne, se ci violentano, e perché no se ci uccidono, la colpa è la nostra. Come diavolo ci viene in mente nel 2025 di uscire vestite come ci pare. Non siamo in Occidente dove certe libertà sono concesse. Ah no, scusate, siamo in Occidente. Seminara fa parte della modernissima Europa, ma qui, se esci con la minigonna, la violenza sessuale di gruppo è giustificata.
Io come tutta Italia la puntata delle Iene l’ho guardata e quando alla fine la collega ha intervistato i passanti, che a Seminara quello che è accaduto lo sanno bene, e conoscono bene anche i protagonisti, tutti hanno giustificato il branco condannando la vittima. In una sorta di metaverso dove i ruoli si sono ribaltati io mi sono indignata. E no, non siamo tutti di quell’opinione e va detto a gran voce. Va presa una posizione netta e contraria affinché nessuna ragazza si senta mai più tanto spaventata e sola da dover tacere una simile violenza. «Se vuoi stare con me devi concederti a tutti». La brutale sintesi di quella che non può e non deve passare come normalità. Sono tante le riflessioni nate dopo quella puntata. Dal ruolo genitoriale fino alla percezione disfunzionale che i giovani hanno della sessualità. Sarebbero mille gli spaccati sociologici da analizzare in quello che è stato tristemente sintetizzato in una ventina di minuti. E mentre le immagini e i nomi del branco continuavano ad andare in onda, senza celare parentele e vicinanza alle ’ndrine, io continuavo a pensare al dolore e alla forza di quella che all’epoca dei fatti era più che una ragazzina.
Me li ricordo ancora i miei 14 anni e una violenza del genere era così lontana dai pensieri di una giovane adolescente. I tempi sono cambiati, direte. Perfetto, ma guardando quelle carte che racchiudono un racconto fatto di barbarie non posso far altro che pensare all’involuzione compiuta. Quello che però non posso lasciare passare è l’idea che ancora oggi una ragazza debba avere paura di essere giudicata per come sceglie di vestirsi.
Nessuno nega, e non lo farò di certo io, che viviamo un momento in cui anche la scelta dell’abbigliamento dovrebbe rispettare la dignità del proprio corpo. E lungi da me dal voler impartire lezioni di stile. Quello che intendo è che sicuramente la mercificazione del corpo della donna si sta normalizzando anche in giovanissima età quando, invece, noi adulti dovremmo responsabilizzare ed essere l’esempio per le ragazzine, insegnare loro che esistono scelte di opportunità e che il rispetto per il proprio corpo passa anche da quelle scelte. Insegnare che dire no e denunciare senza paura è la strada e che non esiste vuoto o carenza che una violenza possa colmare. La ragazzina di Seminare è l’emblema di come esista un mondo sommerso.
Lei è stata forte e con coraggio ha interrotto anni di violenza, ma la domanda che sorge spontanea è agghiacciante: quante ragazze subiscono lo stesso trattamento in silenzio, terrorizzate, segnate a vita dalla cattiveria umana? Questo non vuole essere uno sfogo fatto di giudizio ma un momento per riflettere su cosa stiamo sbagliando. La Calabria non è quel piccolo spaccato di ignoranza mandato in onda sulle reti nazionali.
Siamo in tanti, probabilmente la maggioranza a sostenere che nessun ragazzo, uomo o essere vivente si debba nemmeno sognare di poter abusare sessualmente di una ragazza solo perché sceglie di truccarsi o vestirsi in modo appariscente. Eppure, la storia non insegna. Il branco aveva colpito anni fa a Melito Porto Salvo e anche in quel caso qualcuno, in un misto subdolo tra bigottismo e omertà, tentò di colpevolizzare la vittima. In quel caso la reazione fu immediata. Fiaccolate e solidarietà. Adesso tutto tace in un silenzio assordante che non lascia presagire nulla di buono.
È normale. Tutto tace perché quanto accaduto a una ragazzina di 14 anni abusata e violentata per anni da un branco di ragazzi senza scrupoli che la utilizzavano, come evidenziato dagli inquirenti, come un oggetto, sta passando sotto traccia come se non fosse in realtà semplicemente atroce.
E il rischio peggiore, quello più grave, è che lasciando passare questo messaggio distorto e deviato tanti ragazzini penseranno che «allora se si veste provocante è normale se la violento». E se lasciamo che questo messaggio arrivi ai nostri giovani a quel punto siamo tutti colpevoli. Dovremmo dire tutti, uomini, donne, insegnati, genitori tutti che no, non è normale. E che una donna può vestire come vuole ma se dice no è no.
Dovremmo spiegare che la violenza non ha nulla a che vedere con l’amore e che la sessualità non ha nulla a che vedere con gli eccessi della pornografia. E mentre scrivo mi rendo conto che l’impegno collettivo è molto più arduo e che serve smantellare una mentalità ancora incardinata in dei meccanismi tanto antichi quanto tristemente moderni ad alcune latitudini. Dobbiamo avere il coraggio di dirci la verità, anche quella più scomoda. E oggi, analizzando tutto dopo un paio di ore e dopo aver smaltito rabbia e indignazione, mi domando che fine abbia fatto l’umanità a Seminara.
Mi domando se quegli uomini e quelle donne hanno dei figli, delle figlie. Se e con quale coraggio si guardano allo specchio dopo aver sparato quelle “sentenze”. Giudizi che pesano come macigni. Umanamente, lo dico umanamente, se di fronte a un paese che gira le spalle alla vittima non siamo tutti pronti a farci sentire e a non farla sentire sola, allora abbiamo fallito.
Da oggi, siamo tutti responsabili. Nessuno escluso.