Il boss dei van Gogh Raffaele Imperiale racconta ai pm della Dda di Reggio Calabria i traffici dei clan calabresi. I rapporti tesi con i paramilitari sudamericani: «A volte se si perde un carico dobbiamo pagarli lo stesso o non si lavora più»
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«I colombiani danno la colpa, è un classico». Della vita da narcotrafficante Raffaele Imperiale conosce regole e cliché. Il boss dei van Gogh, oggi collaboratore di giustizia, ha fatto da mediatore tra il Sudamerica e la Calabria per traffici da centinaia di milioni di euro in cocaina. Carichi che, a seconda degli accordi presi, potevano trasportare tra una e due tonnellate di cocaina. Operazioni «tantissime» volte andate a buon fine, racconta il pentito al procuratore capo della Dda di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, e molto spesso intercettati dai finanzieri in servizio al porto di Gioia Tauro o in altri scali italiani.
Davanti ai fallimenti, i paramilitari colombiani che governavano il porto di Turbo, altro snodo del business, avevano sempre la stessa reazione: «Dottore – spiega Imperiale – è un classico. Ogni volta che viene sequestrata merce in Italia, loro hanno una percentuale di investimento a soldi, incolpano sempre».
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Quando la droga viene fermata iniziano due inchieste: investigatori e magistratura si muovono per ricostruire i passaggi e risalire a fornitori e appoggi per la logistica in Italia; i fornitori della coca cercano di capire se qualcuno li ha fregati. Chiedono la prova che il sequestro sia effettivamente avvenuto per essere sicuri che qualche socio non abbia fatto sparire il carico in modo da rivenderlo per conto suo. Anche a questo servono i doganieri infedeli: lavorando all’interno riescono a dare conferma dei sequestri. Non sempre: per un maxi carico da quasi 2mila panetti, il suo contatto Bartolo Bruzzaniti, broker calabrese di stanza in Costa d’Avorio, riesce a fornire soltanto una parte della documentazione. Ci sono le foto dello scanner e documenti che mostrano che c’era stato un controllo visivo al container che trasportava la coca. Non arriva, però, «l’informazione del sequestro» perché il «referente doganale» non riesce a ottenerla da parte della Guardia di finanza che gestisce le operazioni in totale riservatezza.
Sono fasi delicatissime. Imperiale sa che in Colombia non vanno tanto per il sottile: «Sì, compa’ – avrebbe detto ai suoi referenti calabresi – sono informazioni che possono sembrare sufficienti, ma a me serve l’informazione del sequestro e basta, a me una volta che mi hai dato che la merce è stata sequestrata io mi metto a posto».
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I rapporti (complicati) tra calabresi e colombiani
A volte sono complicati i rapporti tra le due sponde dell’Oceano Atlantico. Colombiani e calabresi hanno approcci diversi. Imperiale, che fa da collante, li racconta in un interrogatorio del 23 gennaio 2023. Da un doganiere corrotto del porto di Gioia Tauro arrivano disposizioni «su come la cocaina avrebbe dovuto essere occultata all'interno dei cartoni di banane», dal Sudamerica indicazioni sul quantitativo da trasportare. Sul quantitativo di coca non c’è accordo: i calabresi vorrebbero «mantenere un profilo più basso, con l'importazione di un quantitativo ridotto che avrebbe agevolato i controlli e l'operato dei funzionari corrotti» mentre i paramilitari operativi nel porto di Turbo pretendono «numeri più alti per consentire al carico di uscire». «Imponevano un numero più grosso – dice Imperiale – e dissero: “Meno di 1.900-2.000 chili non possiamo fare”». Nasce così una trattativa che va avanti «per diverse settimane» per «far quadrare le esigenze e trovare una soluzione che consentisse di occultare la sostanza senza violare le disposizioni del “doganiere" corrotto».
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Imperiale: «Al porto di Gioia Tauro tanti sequestri, per questo volevo lasciare»
Il “lavoro di Turbo”, cioè l’importazione di 1.920 panetti di cocaina, segna una svolta nel rapporto tra Imperiale e Bruzzaniti. Il boss dei van Gogh racconta ai pm antimafia che gli affari condotti dai due broker nel porto di Gioia Tauro «non erano risultati particolarmente soddisfacenti, essendo spesso sfociati in sequestri di sostanza stupefacente». Agli inizi del 2019 i rapporti con la ‘ndrangheta iniziano con Imperiale che sfrutta i propri canali a Panama. La sua capacità di importare droga colpisce Bruzzaniti. I lavori inizialmente procedono «per il verso giusto» ma poi i sequestri aumentano e Imperiale pensa di sospendere il rapporto d’affari. Pressato dal suo compare calabrese, si lascerà convincere a tentare una nuova «operazione», alla luce del fatto che il gruppo (per detta di Bruzzaniti) può contare «sulla compiacenza di uno spedizioniere» e un «doganiere colluso». Imperiale avrebbe voluto avviare altri traffici più sicuri, ma si lascia convincere.
Accettata la proposta, decide di sfruttare i propri contatti all'interno del porto di Turbo, in Colombia. Sono contatti "datati", con i quali il broker dice di aver costruito negli anni rapporti molto stretti, «che gli permettevano di muoversi a Turbo come a "casa propria”». Quel carico da 1.920 panetti, però, verrà intercettato e l’intoppo metterà fine agli affari tra i gruppi di Imperiale e Bruzzaniti.
È il broker campano a farne le spese: paga «lo stesso il guadagno ai paramilitari, perché altrimenti non si poteva più lavorare nel porto di Turbo». E se ne lamenta con i calabresi: «Compa’ – dice – voi mi avete messo davvero in difficoltà». Altre difficoltà sono dietro l’angolo: nell’agosto 2021 la parabola criminale di Imperiale si interrompe con l’arresto negli Emirati Arabi. Per il broker che possedeva due quadri di van Gogh e un’isola in un arcipelago di fronte a Dubai comincia una nuova vita da pentito.