VIDEO | Il titolare della Difesa oggi in Calabria per ricordare il militare ammazzato il 6 febbraio 1985 nella Locride a colpi di lupara, mentre stava tornando a casa. Grande investigatore, aveva preso parte ad importanti indagini durante l'epoca dei sequestri
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In Calabria ci era arrivato nel 1980, poco più che maggiorenne, direttamente dal corso sottoufficiali dei carabinieri: prima destinazione, la trincea del nucleo operativo di Bianco, punto di partenza di una carriera interrotta, meno di cinque anni dopo, da sette colpi di lupara. Carmine Tripodi, primo carabiniere vittima di un agguato premeditato per mano della ‘ndrangheta, si era arruolato giovanissimo e giovanissimo era stato catapultato dalla Campania fino a quel pezzetto di Calabria all’epoca epicentro della stagione dei sequestri.
La squadriglia di Motticella a Bruzzano Zeffirio prima – feudo di due cosche tra le più attive nei sequestri di persona e da lì a qualche anno teatro di una faida capace di 50 morti ammazzati – poi il trasferimento a San Luca e la promozione a brigadiere e, nel 1982, a comandante di stazione. Fino all’agguato del febbraio 1985, quando un gruppo di fuoco fermò la sua corsa sulla strada che porta al mare.
Nei primi anni 80, la macchina dei sequestri di persona funziona a pieno regime. La Lombardia, il Piemonte, il Veneto. Ma anche la Locride: Bovalino, Locri, Grotteria, Stilo.
Gli obiettivi dell’anonima sequestri sono ovunque: anziani industriali del nord o bambini figli di famiglie agiate del territorio. Il copione è sempre lo stesso e le bande che ne interpretano i protagonisti vengono tutte (o quasi) da quel pezzetto di Calabria compreso tra l’Aspromonte e lo Jonio. Ancora lontani i tempi del sostanziale raddoppio delle forze dell’ordine presenti sul territorio disposto dal ministero dell’Interno sull’onda del sequestro Casella, la risposta dello Stato in quel periodo, è affidata unicamente all’intuito dei suoi pochi investigatori sul campo.
Ma tra mille difficoltà qualcosa si muove. Il sequestro del “re delle pellicce” Giuliano Ravizza – rapito a Pavia e trasportato in Calabria per la detenzione – non resta impunito ed è proprio Tripodi a guidare le indagini che porteranno all’arresto degli autori. Ed è sempre il brigadiere campano ad accompagnare l’ingegnere Carlo De Feo, di ritorno sui luoghi dove era stato rinchiuso per oltre un anno. Rapito nel 1983 a Napoli, De Feo era stato rilasciato a Platì dopo il pagamento di un riscatto di 4,4 miliardi di lire. Dopo la sua liberazione, aveva guidato gli inquirenti lungo le tante prigioni improvvisate in cui era stato nascosto. Le indagini che ne erano seguite avevano portato ad una quarantina di arresti tra le famiglie di ‘ndrangheta di San Luca.
Era giovane il brigadiere Carmine Tripodi, ma non era inesperto. Investigatore vero, sulle tracce delle decine di sequestri che in quegli anni ingrassarono le cosche permettendone l’ingresso nel mondo del narcotraffico, aveva più volte battuto la montagna. Ne aveva percorso i sentieri alla ricerca di covi e latitanti e aveva imparato a conoscerne la gente, non solo i mafiosi.
Si era fidanzato con una ragazza di Bianco sua coetanea, il matrimonio si sarebbe dovuto celebrare a marzo. Ed è sulla strada per Bianco, verso la casa in cui erano ospiti anche i suoi genitori, scesi in Calabria per i preparativi delle nozze, che lo aspetta il commando di fuoco. È il 6 febbraio del 1985, sono quasi le 9 di sera, Tripodi, ancora in divisa, ha appena lasciato la caserma di San Luca e nonostante il fragore procurato dalle indagini, non ha motivo di aspettarsi un agguato.
Mai prima di allora la ‘ndrangheta aveva giustiziato a sangue freddo un rappresentante delle forze dell’ordine. A bordo della sua auto, Tripodi fa in tempo a lasciarsi il paese di poco alle spalle prima di essere fermato. Qualcuno lo aspetta dopo una curva a gomito. Succede tutto in pochissimo tempo. Le rose di lupara rinvenute dagli inquirenti sul corpo del brigadiere e sull’auto da cui non ha fatto in tempo a scendere sono sette. Uno dei pallettoni gli forerà l’arteria. Anche Tripodi spara; sei colpi con l’arma d’ordinanza, prima di accasciarsi su un fianco.
Gli assassini, tre sostennero gli inquirenti ricostruendo l’omicidio, infierirono sul corpo della vittima prima di scappare. Nessuno pagherà per quell’omicidio. Nelle settimane successive furono fermati tre giovani di San Luca, uno all’epoca dei fatti ancora minorenne: sospettati di avere fatto parte del commando di fuoco che ha portato a termine la sentenza, furono assolti negli anni successivi da tutte le accuse. Stesso sorte toccata ai presunti fiancheggiatori del gruppo.
Dopo gli anni del tremendo silenzio e dei continui danneggiamenti alla stele fatta erigere dalla fidanzata di Tripodi, negli anni le cose sono cambiate e, alla memoria del giovane militare ammazzato dalla ‘ndrangheta, sono state intitolate una piazza e la nuova caserma dell’Arma; domani sarà l’attuale ministro della Difesa Guido Crosetto a rendergli omaggio in una cerimonia davanti al cippo che ne ricorda la figura. «Ma io non sono stato invitato, non ancora almeno – dice il sindaco di San Luca Bruno Bartolo, che qualche settimana fa aveva sottolineato la totale assenza in paese dei candidati durante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento – ma sono contento che ricordino la figura del brigadiere Tripodi. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, era un uomo buono».