VIDEO-AUDIO ESCLUSIVO | I due collaboratori di giustizia, Francesco Michienzi e Andrea Mantella raccontano della dorata latitanza di un boss supericercato che trovò riparo nella lussuosa struttura napitina - l’albergo dei fratelli Stillitani - al centro della maxinchiesta Imponimento (ASCOLTA L'AUDIO)
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Capelli lunghi, occhiali. Giovane: età apparente quarant’anni. C’era una donna con quel most wanted. «Sono padrone di mezza provincia», avrebbe detto. Ma con uno strano accento, che non era tipico degli africoti. Quindi comprese, Francesco Michienzi, affiliato agli Anello-Fruci destinato a passare tra le fila dei collaboratori di giustizia, che quello forse non era Rocco Morabito e che i Bonavota volessero celarne la vera identità.
Non era Rocco Morabito, il Tamunga
Già, intuì bene, Michienzi. Il latitante da nascondere al Garden Resort di Pizzo, quello dei fratelli Stillitani, imponente struttura ricettiva sequestrata nella maxioperazione Imponimento, non era la primula di Africo. Quando assieme a Vincenzino Fruci, luogotenente del capomafia di Filadelfia Rocco Anello su Curinga, Michienzi si recò a Sant’Onofrio dal boss Domenico Bonavota a prendere istruzioni sul da farsi gli fu raccontata una frottola. E chissà invece dov’era colui che i carabinieri identificarono subito come il Tamunga, da lustri alla macchia, stanato solo molti anni dopo in Uruguay, quindi rinchiuso in un carcere e da qui clamorosamente evaso, per tornare, ancora oggi, un fantasma tra l’America Latina e il vecchio continente.
Quel giorno al resort di Pizzo
Siamo tra il 2003 ed il 2004 ed il villaggio al confine tra Pizzo e Curinga sarebbe stato in pugno alla malavita, che nella gestione avrebbe sistemato una figura di riferimento: si chiama Antonio Facciolo, un insegnante divenuto poi manager e imprenditore, prima – dicono i pentiti – arringato ai Bonavota, in seguito agli Anello. Michienzi era stato incaricato di curare la sistemazione del fuggiasco, affidato preminentemente alle cure di Francesco Fortuna, un pezzo grosso dei Bonavota, uno degli uomini più fidati del boss Domenico e di suo fratello Pasquale, infallibile uomo d’azione – spiegano le gole profonde – che avrebbe preso parte ad alcune delle più cruente spedizioni di sangue consumatesi a quel tempo nella provincia.
Arrivarono al resort. Michienzi chiese alla ragazza della reception la chiave di una camera, ma gliela rifiutò. E quindi, seguendo pedissequamente le disposizioni dei Bonavota, interessò Facciolo, il quale risolse immediatamente il problema. Lo registrarono sotto falso nome: «Ferrari», svela il pentito.
Dopo il pentimento
Tre anni dopo, il 27 gennaio 2007, una volta saltato il fosso, racconterà per la prima volta di quell’esperienza ai carabinieri. Ma era davvero Morabito? Così il tempo passa. Fuori dal carcere, una sera lo guarda il telegiornale e riconosce quel volto: «Non era Rocco Morabito… Quello era Giuseppe Tegano», spiegherà al pool di Nicola Gratteri e al Gico di Catanzaro, l’11 novembre 2019. Ma non è mai esistito un Giuseppe Tegano latitante. Fa confusione Michienzi? Forse vuole indicare Giovanni Tegano, padrone davvero di mezza provincia e forse più? Ma l’anziano boss arrestato dalla Polizia nel 2010 dopo ben 17 anni di latitanza, quello osannato all’uscita dalla Questura di Reggio Calabria come «uomo di pace», non era certo un quarantenne…
Le parole di Mantella
Diceva bene, Michienzi: non era Morabito. Diceva male: non era un Tegano. E forse diceva di nuovo bene: quel superlatitante era un «Giuseppe». Quale Giuseppe? Lo svela, esattamente due ore dopo, Andrea Mantella: era «Giuseppe De Stefano», il figlio di don Paolino, tra i più potenti capimafia mai esistiti. Peppe (De Stefano, non Tegano), alla macchia dal 2003, sarebbe stato arrestato solo cinque anni dopo, il 10 dicembre 2008, nella sua Reggio Calabria.
Andrea Mantella, che non era certo un picciotto a cui si potevano nascondere certe cose, sentito negli uffici dello Scico anche lui l’11 novembre 2019, racconta che De Stefano fu ospitato prima in quel resort, poi in una villetta di Pizzo, della quale era proprietario Pasquale Bonavota. Gli avrebbero offerto piena assistenza, procurandogli perfino delle biciclette per sgranchirsi le gambe. Giovane, età apparente quarant’anni: il figlio di don Paolino allora ne avrebbe avuti trentasei. Capelli lunghi, occhiali: le immagini della sua uscita dalla Questura di Reggio, dopo l’arresto alla fine del 2008, offrono un profilo pressoché coincidente all’identikit del signor «Ferrari».
Era lui il «padrone di mezza provincia» indicato da Michienzi e ospitato dai Bonavota, spiega Mantella. I Bonavota e Mantella che all’epoca agognavano di annientare il potere dei Mancuso e prendersi loro l’altra provincia, quella di Vibo, divenuto un focolaio di guerra fino all’offensiva di magistratura e forze dell’ordine che dal 2012 ad oggi ha sempre più alzato il tiro: arresti, processi, condanne, pentimenti eccellenti. Una storia criminale sconosciuta che oggi si può raccontare.