L’ex sostituto procuratore che ha curato importanti inchieste della Dda di Catanzaro contro i clan ha presentato il suo romanzo “Il coraggio di Rosa”. Un volume che sfiora i grandi temi della lotta alla criminalità organizzata e parla di riscatto: «Crediamo nei giovani»
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Il ritorno in una città a cui è rimasta legata e un messaggio di speranza e di coraggio rivolto a chi vorrà raccoglierlo: in primo luogo alle donne. «Vibo Valentia è rimasta nel mio cuore. Oggi, a differenza di quanto accadeva anni fa, trovo un territorio più sensibile e disposto ad ascoltare e discutere di problemi che esistono e condizionano le vite di tanti»: Marisa Manzini ha lasciato un pezzo di cuore e un grande ricordo a Vibo Valentia. Alla sua attività da sostituto procuratore della Dda di Catanzaro si legano importanti inchieste contro la ’ndrangheta. L’occasione della presentazione del suo libro “Il coraggio di Rosa” è la conferma di un legame saldo. Il volume è un romanzo che racconta l’incontro tra due donne, un magistrato del Nord che scopre la Calabria e una ragazza che si innamora del giovane boss del paese e finisce stritolata nelle dinamiche di una famiglia mafiosa prima di capire che l'unica scelta - per quanto dolorosa e difficile - sia quella del riscatto.
Rosa inaugura un rapporto con lo Stato perché sogna un futuro migliore per suo figlio. Già prima di convincersi a testimoniare è mal tollerata dalla famiglia di ’ndrangheta: sua suocera Caterina la considera un corpo estraneo. In questa storia di donne, Manzini rivede parte del proprio percorso professionale: «Ho conosciuto più donne come Caterina che donne come Rosa. Ho visto donne che si erano convinte ad abbandonare le loro famiglie mafiose e che poi hanno scelto di fare un passo indietro pagandone tragicamente le conseguenze».
Eppure è proprio dalla scelta delle donne che passa parte del contrasto alla criminalità organizzata. Manzini, che ha risposto alle domande dell’avvocato Ketty De Luca e del giornalista di LaC News24 Pablo Petrasso, racconta che «per la ’ndrangheta la collaborazione di una donna è un terremoto, uno di quegli eventi che mandano in tilt le famiglie mafiose». Nel corso delle indagini, dice il magistrato, «si poteva percepire l’incredulità dei Mancuso davanti a una eventualità del genere: c’erano conversazioni in cui dicevano “noi non abbiamo collaboratori”». In un contesto del genere, la possibilità che la moglie del boss inizi a collaborare manda in tilt i clan.
E pone anche i magistrati davanti a scelte difficili: tutelare le indagini o mettere davanti a tutto la sicurezza del testimone? Manzini conclude che «se necessario bisogna scegliere di proteggere» e raccoglie un applauso convinto. C’è poi la questione del come proteggere e aiutare chi sceglie il percorso di collaborazione. Anche su questo Manzini non ha dubbi: «Abbiamo buone leggi, il problema è metterle in esecuzione. Credo che serva una formazione approfondita per chi ha il compito di dare supporto alle persone che scelgono di stare dalla parte dello Stato». Continua a leggere sul Vibonese.it.