L’idea di estendere gli affari criminali nella Capitale concepita in un gruppo di edifici abusivi costruiti in campagna. I giudici del processo Propaggine non hanno dubbi: la mangiata organizzata il 15 ottobre 2017 nella periferia romana era un summit di ’ndrangheta. Inviti limitati, grandi cautele e assenze permesse solo con adeguata giustificazione, anche se riguardano pezzi grossi della prima Locale di Roma. 

Organizza Antonio Carzo, vertice operativo della ’ndrina: «Vi chiamo a tutti, in un attimo che ci riuniamo, stabiliamo tutto, com’è la situazione, vi voglio a tutti, chi non vuole venire significa che non vuole venire e via, per tre volte e la terza volta… aria». I dialoghi vengono riproposti nelle motivazioni della sentenza Propaggine: l’intenzione del boss, per i magistrati, è quella «di fare il punto circa l’organizzazione della Locale, con l’eventuale ridistribuzione delle cariche e la conta degli appartenenti». Vertice organizzativo, dunque, per stabilire ruoli e scopi.

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Il contesto stesso della riunione è una metafora della ’ndrangheta: tra mura che, di fatto, non esistono si discute di una fetta di potere nella Capitale d’Italia. Il summit avviene nel «terreno antistante l’abitazione di Giulio Versace, in una zona estremamente periferica» di Roma, «dove alcuni degli imputati e altri soggetti di provenienza calabrese hanno edificato una serie di immobili abusivi». Quell’enclave di ’ndrangheta non esiste nelle mappe catastali. Al riparo, o almeno così credono, dalla “curiosità” delle forze dell’ordine, Carzo e i suoi compari organizzano questa «riunione conviviale». Pensano di passare inosservati ma gli investigatori riescono «a individuare il luogo in cui è avvenuta la mangiata e a identificare una serie di soggetti che vi hanno partecipato». La riunione, per i giudici, è avvenuta in via Arischia, in un’area in cui si trovano le proprietà di due famiglie considerate vicine agli Alvaro.

Il boss si lamenta per il menu della mangiata

Una decina i partecipanti: tutti calabresi, secondo quanto stabilisce la sentenza. Che si arricchisce di una «nota culinaria». Per gli invitati «era stato previsto un pranzo abbondante: erano stati predisposti dieci chili di carne, non consumata integralmente perché alcuni invitati erano stati assenti e perché era stata servita prima la pasta». Scelta che indispettisce il boss «perché, dato il quantitativo di carne, questa avrebbe potuto costituire il piatto principale».

Non è l’unica nota di colore né la sola lamentela di Carzo, a cui non va giù «la mancata previsione di un momento danzante, che avrebbe reso ancor più gradevole l’incontro, nel corso del quale i presenti si erano comunque divertiti». Tra una costoletta e l’altra si disegnano gli equilibri della Locale romana. Succede, secondo consuetudine, anche in un’altra occasione conviviale come il matrimonio della figlia di Vincenzo Alvaro, altro snodo dell’inchiesta che mostra le connessioni tra clan a Roma. «All’evento e soprattutto al successivo banchetto - scrivono i giudici - partecipavano circa 300 persone, con boss mafiosi di elevato calibro puntualmente ripresi dalle telecamere» installate dalla polizia giudiziaria. Alvaro sapeva bene che l’evento avrebbe attirato l’attenzione dei magistrati e «aveva consegnato gli inviti a mano e aveva addirittura omesso di scrivere il nome degli invitati - sostituito da un numero, corrispondente a quello poi riportato sull’invito - sul pannello di assegnazione dei posti a tavola al ristorante.

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I rapporti con il clan Farao-Marincola di Cirò

Tra i presenti, la sentenza evidenzia «importanti soggetti di vertice delle cosche calabresi come Giuseppe Spagnolo, della cosca Farao-Marincola di Cirò Marina, accompagnato dal guardaspalle Francesco Russo, ma anche un soggetto come Pasquale Morabito, con condanne definitive per associazione mafiosa e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti». «O - continuano i giudici - come Giuseppe Ferraro, coinvolto nell’operazione nota come I fiori della notte di San Vito, al termine della quale riportava una condanna definitiva per traffico di droga».

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C’erano presunti esponenti della Locale romana e colletti bianchi in contatto con loro: avvocati, commercialisti, professionisti.

Le partecipazioni non sono casuali. Sulla presenza di Spagnolo - accolto alla cerimonia di nozze «con molta enfasi» - i magistrati ritornano in un altro passaggio della sentenza per approfondire la questione dei rapporti tra Vincenzo Alvaro, braccio affaristico del clan, e la cosca Farao-Marincola di Cirò. Spagnolo, 55 anni, nel 2017 non era ancora stato coinvolto nell’inchiesta Stige della Dda di Catanzaro. L’operazione lo porta in carcere nel gennaio 2018: al termine dei primi due step processuali l’uomo riporta una condanna a 20 anni. È, insomma, un elemento di vertice della cosca di Cirò, dunque i suoi incontri con Alvaro a Roma hanno il valore di un confronto tra i capi di due clan. Nella Capitale, Spagnolo arriva per chiarire un contrasto. In quella discussione, il cirotano si rivolge ad Alvaro quasi con deferenza: «Preferisco più l’amicizia del compare Vincenzo che tutte queste… questo immondezzaio (…) a me mi dovete chiamare solo se avete bisogno voi e c’è qualche imbasciata da fare sotto (in Calabria, ndr) che vi servo fino alla morte».

Sono parole che suggellano un patto d’affari sull’asse Roma-Cirò. L’accordo riguarda la compravendita del pesce in due porti - quelli di Cirò Marina e Cariati - nei quali la cosca Farao-Marincola ha grande agibilità. È grazie a questi rapporti che «la società Cala Roma godeva di una situazione di privilegio rispetto a tutti gli altri operatori del settore sia nel porto di Cirò che nel porto di Cariati».

«Di qua siamo di famiglia, a Cirò siamo più di casa», dice Alvaro a uno dei suoi soci. Gli inviti ai matrimoni non si distribuiscono a caso.