Entravano da clandestini in cerca di un futuro migliore: l’indagine della Procura di Cosenza sul giro di impieghi fittizi agli immigrati racconta anche la disperazione di uomini pronti a tutto pur di riuscire a rimanere in Italia
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«Salam aleikum». In urdu vuole dire «che la pace sia con voi» ed è l’equivalente del nostro «buongiorno». Si salutano così al telefono i bengalesi e i pakistani intercettati dalla Procura di Cosenza perché beneficiari di impieghi fittizi ottenuti a pagamento per aggirare le leggi sull’immigrazione e restare così in Italia. L’operazione di polizia che venerdì scorso ha determinato l’arresto di un commercialista, di un imprenditore e di altre quattro persone ritenute coinvolte in quel giro, racconta anche le storie di una decina di bengalesi e pakistani, degli espedienti da loro impiegati per arrivare nel nostro Paese e di quelli utilizzati per restarci.
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Ognuno di loro entra da clandestino e poi segue un percorso guidato - quasi sempre lo stesso - per procrastinare il più a lungo possibile l’espulsione e il conseguente rimpatrio. Si tratta per lo più di disperati, il cui approdo ultimo è l’esclusione dai canali ufficiali dell’accoglienza. Tutto questo, va da sé, li rende prede facili di chi – incluso qualche loro connazionale - intravede nella loro condizione una possibilità di arricchimento personale. In tal senso, l’inchiesta coordinata dall’ufficio di Mario Spagnuolo è anche un viaggio al termine del nostro sistema Immigrazione, tra luci e ombre di una normativa in apparenza rigida, ma in realtà caratterizzata da ritardi, omissioni e buchi. Ed è in questo chiaroscuro che, come sempre, fioriscono i mostri.
Sette pakistani, fra gli altri, entrano in Italia in tempi diversi, tra il 2016 e il 2019. Abu (42 anni) e altri due arrivano in aereo e sono autorizzati a svolgere un lavoro stagionale. Tuttavia, si guardano bene dall’esibire i rispettivi passaporti. Riferiscono di non averli e si proclamano profughi in cerca di asilo politico. Gli altri rinunciano alla pantomima, penetrano attraverso le frontiere di Udine o Ventimiglia e fanno subito richiesta di protezione internazionale. Solo Muhammad (37) afferma di essere ricercato in patria da una banda di strozzini intenzionati a ucciderlo, mentre gli altri si limitano all’enunciazione generica. Trovano poi dimora presso conoscenti o in qualche centro d’accoglienza, dove restano in attesa che la Commissione territoriale di turno valuti le loro istanze. Per la decisione, bisogna attendere in media un anno e mezzo. Talvolta, pure due.
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Tutte le istruttorie si concludono con esito negativo. Si tratta con ogni evidenza di migranti economici, non c’è alcuna ragione per riconoscere loro lo status di rifugiato, ma poco importa: a quel punto, Shazad (37) è già fuggito dal centro che lo ospita e si è reso irreperibile. Adil (33) riappare dopo la bocciatura della sua istanza, giusto il tempo di presentare ricorso per allungare così i tempi della procedura di espulsione. Passerà un altro anno, infatti, prima che la Commissione si pronunci una seconda volta. Musharraf (41) strappa un permesso di soggiorno provvisorio perché le autorità lo ritengono «ben integrato nella comunità», ma a quel punto anche lui come gli altri ha bisogno di un impiego. L’occasione buona si materializza nel 2020. Con un’assunzione regolare presso un’azienda o una famiglia si ottiene il diritto a strappare l’agognato permesso di soggiorno. L’emersione dal lavoro nero diventa un potenziale business per alcuni. Le strade dei sette convergono tutte sulla città di Cosenza.
Dopo averli regolarizzati sulla carta, lo Stato si appresta nuovamente a dimenticarsi di loro, a perderne le tracce per l’ennesima volta. Nessuno dei sette è animato da cattive intenzioni, ché diversamente saremmo qui a raccontare un’altra storia. Cercano solo un futuro migliore per sé stessi e per gli affetti che li attendono in Pakistan. A un lavoro virtuale conseguito, si associa per ognuno di loro un’esigenza: quella di averne uno reale. Hanif (29) lascia la città di Cosenza perché qui «non c’è riso» come si dice al suo Paese, e va a cercare fortuna a Napoli. Ripon, un bengalese ritenuto in combutta con gli italiani, lo contatta telefonicamente per chiedergli di conciliare. Il pacchetto truffaldino che gli ha consentito di ottenere il permesso di soggiorno costa cinquemila euro. Hanif ne ha pagato solo 1500 e ora è il momento di ottemperare ai pagamenti. Sbarca il lunario come lavapiatti, guadagna poco, ovviamente in nero, ma non dispera. «Lavoro moltissimo» confida all’amico che amico non è, «confido che il padrone arrivi a darmi mille euro. Me li merito, deve darmeli». E con quei soldi onorerà il debito, garantisce all’amico. Che suo amico non è mai stato. Si congeda da lui con un «Allah Hafiz», che Iddio ti protegga. Pure a te, Hanif. Pure a te.