Comunicazioni perdute, segnalazioni sparite, problemi che si ripropongono ed udienze che saltano. Se non infetta, di certo ingolfa la macchina della giustizia l’epidemia di Covid19, all’alba della “fase due” anche nei tribunali ancora gestita come imprevedibile emergenza. Fra le “vittime”, anche il processo “’Ndrangheta stragista”, per l’ennesima volta incagliato sui file audio delle conversazioni intercettate in carcere, che il boss palermitano Giuseppe Graviano ritiene imprescindibile ascoltare prima di continuare a sottoporsi all’esame.

Il fiume in piena Graviano

Dopo anni di silenzio, nei mesi scorsi “Madre natura” ha ritrovato la favella. Per settimane dal carcere di Terni ha parlato dei rapporti che storicamente legherebbero la sua famiglia a Silvio Berlusconi, il cui nome era saltato fuori dalle conversazioni fra il boss e il camorrista Umberto Adinolfi intercettate in carcere nel 2016. «Le uniche cose vere dell’ordinanza ‘Ndrangheta stragista» a detta di Graviano, che in aula ha aggiunto dettagli e specificazioni. Sugli affari che avrebbero legato la sua famiglia al padre padrone di Forza Italia. Sugli incontri da latitante con Berlusconi. Sulla sua latitanza dorata al Nord.

Il dire e non dire del boss

E poi allusioni a mai meglio precisati «imprenditori milanesi» coinvolti in quei rapporti e in quegli affari. A pezzi dell’intelligence del protocollo Farfalla «che a me non si sono mai avvicinati» ma di cui evidentemente conosceva l’esistenza, a quegli uomini ancora senza nome «che hanno ucciso il poliziotto Nino Agostino e sanno dov’è l’Agenda Rossa di Borsellino». Alla classe politica della stagione delle stragi e a quel «primo ministro che chiese di informarsi al riguardo a amici di Enna» e per questo ha rischiato di essere eliminato da chi «voleva che le stragi continuassero» e che «non era Berlusconi a volerle fermare». Tutti temi su cui non ha mai avuto intenzione di andare a fondo.

Messaggi destinati altrove

Per mesi, dal carcere di Terni Graviano ha continuato a dire e non dire, a lanciare accuse pesantissime mischiate a ingarbugliati con cui il boss, che per omicidi e stragi ha sette ergastoli da scontare, ha tentato di negare persino di aver avuto un ruolo in Cosa Nostra. Messaggi declamati in videoconferenza di fronte alla Corte e alle parti, ma che da sempre sono sembrati confezionati perché altri, altrove, li potessero sentire, capire, decifrare. Poi il fiume in piena Graviano si è fermato. Messo alle strette dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che lo ha chiamato a confrontarsi con le sue stesse, esplicite, parole intercettate in carcere – prima fra tutte, la «cortesia» che Berlusconi avrebbe chiesto sulle stragi – “Madre Natura” si è arroccato sulla richiesta di riascoltare le sue stesse parole.

Tre mesi di «difficoltà tecniche»

Per «inspiegabili motivi» - ha detto oggi spazientito oggi il procuratore aggiunto – dopo due mesi il carcere di Terni non è riuscito a fornire al boss il supporto necessario per farlo. «Se hanno difficoltà, siamo in condizioni di inviare da qui un computer con le periferiche bloccate, ma che ce lo comunichino» ha tuonato Lombardo. Ma – già prima e in tempi di Covid19 ancor di più – a quanto pare le comunicazioni si sono perse lungo i canali della burocrazia del carcere. «Ma ogni cosa che io chiedo dal 9-10 marzo mi viene detto che è tutto bloccato – si è lagnato Graviano in videoconferenza - anche i capelli, non me li posso tagliare». E se, come ha spiegato il pentito Cipriano D’Alessandro, è regola inderogabile per gli uomini di mafia non mostrarsi mai in disordine, per “Madre Natura” è un problema.

Ansia di concludere il processo o strategia?

Mai però come quei «dieci dischetti (cd)» con le intercettazioni audiovideo delle sue conversazioni con Adinolfi che si rifiutano di funzionare. «Io ho premura di fare l’udienza» si lascia scappare. Senza riascoltare quelle conversazioni però non lo ritiene possibile, anche perché a suo dire le perizie arrivate da Palermo sarebbero «tutte sbagliate». Le trascrizioni gli sono state inviate e – afferma - «sono errate perché ci sono addirittura parolacce che io non dico, volgari, una parola siciliana che io non utilizzo e se qualcuno lo fa con me, io lo correggo “per gentilezza con me non parlare in questo modo”». L’intenzione del boss sarebbe dunque di contestarle punto per punto. E sembra avere fretta di farlo. Una strategia della confusione da attuare a Reggio per guastare Palermo, dove è in corso il secondo grado del processo Trattativa e diversi pentiti calabresi dovranno essere ascoltati? Si vedrà.

Le indagini proseguono

Di certo, non avrà gioco facile. La pubblica accusa ha ascoltato e sulle parole che il boss ha detto o si è fatto scappare in aula non ha mai smesso di lavorare. Ha cercato riscontri e conferme, le ha incrociate con quelle dei pentiti (e non solo) di quella stagione. A breve, ha annunciato il procuratore, verrà depositata una nuova attività integrativa. E nuovi verbali, incluso quello di un’udienza del processo Borsellino quater in cui è il pentito Toni Calvaruso a farsi scappare un inciso in grado di aprire scenari che vanno ben oltre le timide allusioni di Graviano agli «imprenditori milanesi» o alla «scrittura privata» con cui sarebbero stati messi nero su bianco i nomi dei soci siciliani occulti di Berlusconi e i termini di quell’accordo.

Il quaderno da terza guerra mondiale

«Erano i primi giorni del 1994. Bagarella - aveva detto in aula Calvaruso - mi diede un quaderno su cui c'erano appuntati nomi e cifre e mi disse di non farlo vedere a nessuno perché sarebbe successo un macello. Se quei nomi fossero venuti fuori sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale». Per Lombardo «un inciso di particolare interesse». Ma altro al riguardo non ha inteso dire. Per capirne davvero il peso bisognerà aspettare, quanto meno che Graviano ascolti i file e che il processo prosegua. Guai tecnici permettendo, “Madre natura” avrà tempo fino all’11 maggio, nel frattempo a sfilare davanti alla Corte dovrebbero essere gli ultimi testi della difesa, sempre che le restrizioni o le paure da Covid19 non si mettano di traverso.

«Filippone era meglio che stesse in carcere»

Ma l’epidemia sta procurando guai anche al coimputato di Graviano, il boss di Melicucco Rocco Santo Filppone. Mandato ai domiciliari nel torinese per motivi di salute, adesso – ha spiegato in aula il suo legale – non avrebbe la possibilità di ricevere assistenza. «Allora forse meglio che rimanesse in carcere» ha affermato il legale, di fronte a una stupita presidente della Corte che non ha potuto che ribattere «è quel che avevo detto anche io, ma avete presentato voi l’istanza». Affetto da diverse patologie, Filippone ha chiesto che sia consentito ad un infermiere il regolare accesso all’abitazione in cui è in custodia, ma è impossibile senza approfondimenti investigativi sul sanitario prescelto. Tanto meno è possibile ricoverarlo in una struttura pubblica o privata per accertamenti, perché i ricoveri sono sospesi nella migliore delle ipotesi, fino all’inizio di maggio.

Tutti fuori?

Un problema che potrebbe potenzialmente potrebbe riguardare molti detenuti che adesso grazie ad una circolare del Dap, che con l’epidemia di Covid19 in corso identifica come soggetti a rischio ultrasettantenni o malati, premono per una scarcerazione. Con buona pace delle maggiori difficoltà di accesso alle cure e dei rischi che – come la vicenda Filippone dimostra – uscire dal carcere comporta.