Il pugno di ferro della Dda di Catanzaro nei confronti di boss o presunti tali della ‘ndrangheta cosentina, da Cassano a Cosenza. Era il 16 giugno del 2023 quando il nostro network dava notizia della doppia applicazione del 41 bis ai fratelli Luigi Abbruzzese (alias Pikachu) e Marco Abbruzzese (alias Lo Struzzo), ritenuti al vertice della presunta cosca Abbruzzese “Banana” di Cosenza. Stessa sorte che sarebbe capitata qualche giorno più tardi ad altri esponenti della ‘ndrangheta di Cosenza, vale a dire Francesco Patitucci, Mario “Renato” Piromallo e Adolfo D’Ambrosio. E a distanza di mesi altri soggetti di primo piano sono stati isolati.

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Il fiato sul collo della Dda

A richiedere il “carcere duro” era stata la Dda di Catanzaro, all’epoca diretta dal procuratore Nicola Gratteri, passato a ottobre scorso alla Dda di Napoli. Una strategia ben precisa quella della magistratura calabrese che aveva (e ha) come obiettivo quello di interrompere ogni legame e rapporto tra i boss detenuti e chi invece rimaneva (e rimane) all’esterno. Il senso del 41 bis è infatti proprio questo: vietare di portare “messaggi” ai sodali.

Le posizioni di Patitucci e Piromallo

Nella prima fase quindi la Dda di Catanzaro aveva messo sul taccuino i clan di Cosenza, ritenuti confederati tra loro, come emerge dalla prima contestazione formulata dai magistrati Corrado Cubellotti e Vito Valerio nel procedimento penale “Reset“. La pressione investigativa è proseguita poi con Michele Di Puppo, considerato “l’alter ego” di Francesco Patitucci. Di Puppo e Patitucci sono stati gli unici a sbilanciarsi nell’udienza preliminare di “Reset“, ammettendo di far parte di un gruppo operante tra Cosenza Rende. Entrambi, però, avevano negato di aver fatto accordi con gli “zingari“, ma che alla base vi fosse solo un “rispetto criminale“, o per meglio dire una “pax mafiosa“, che dura ormai da quasi 20 anni.

A sorpresa anche il figlio del “cinese”

Nei mesi scorsi, forse anche a sorpresa, al 41 bis è finito anche Antonio Abbruzzese, imputato in “Testa di Serpente”, “Reset” e “Athena”. Si tratta del figlio di Giovanni Abruzzese, detto il “cinese”, ritenuto il capo storico degli “zingari” di Cosenza all’indomani del pentimento di Francesco Bevilacqua, meglio conosciuto come “Franchino ‘i Mafarda“. Antonio Abbruzzese è stato associato al “carcere duro” per la posizione apicale, secondo i pm antimafia, che avrebbe assunto nel clan di appartenenza legato familiarmente e criminalmente parlando con gli Abbruzzese di Cassano Ionio.

Cassano e dintorni

E veniamo ai giorni nostri. la Dda di Catanzaro ha inviato la richiesta pure per Luigi Abbruzzese, figlio di Francesco Abbruzzese, alias “Dentuzzo”, Roberto Porcaro e Nicola Abbruzzese, alias “Semiasse”. Le ragioni, tuttavia, sono diverse. Nel caso di Luigi Abbruzzese, i magistrati antimafia in servizio nel capoluogo di regione ritengono che il giovane cassanese abbia preso il controllo della cosca, impartendo gli ordini ai suoi. Lo avrebbe fatto durante la latitanza, a seguito della prima operazione “Gentlemen“, nata nel 2015, e avrebbe mantenuto un ruolo di vertice anche dal carcere come emergerebbe nei colloqui intercettati, nell’ambito della vasta indagine coordinata dal pubblico ministero Alessandro Riello.

Ma i clan, come sappiamo, hanno bisogno di un aiuto concreto da parte di chi è libero. Così, soprattutto nell’operazione “Athena” risulterebbe ben chiaro il fatto che la “reggenza” del sodalizio criminale degli Abbruzzese “Banana” fosse passata poi nelle mani dello zio, fratello di “Dentuzzo“. Era “Semiasse“, a tal proposito, a tenere vivi i contatti con i cugini di Cosenza, vedi Luigi e Marco Abbruzzese, o con gli attuali pentiti Ivan Barone e Gianluca Maestri, mentre nella Sibaritide, almeno fin quando non è scattata l’operazione “Kossa“, avrebbe consolidato i rapporti con la famiglia Forastefano, un tempo acerrima nemica.

Porcaro e i vari colpi di scena

Infine, Roberto Porcaro. Il caso dell’ex “reggente” degli italiani, almeno fino al 13 dicembre 2019, è particolare per ovvi motivi. Prima dell’avvio dell’udienza preliminare, il presunto mafioso aveva deciso di collaborare con la giustizia. Secondo la Dda, Porcaro non avrebbe confessato pienamente ciò che sapeva ed è per questo motivo che la situazione si è piano piano incrinata. Poi, nella fase calda del processo abbreviato di “Reset“, è arrivato il colpo di scena: il boss o presunto tale che si pente di essersi pentito. Tanto da affidare il suo pensiero a una lunga lettera depositata agli atti del processo che si tiene a Catanzaro. Il 41 bis, dunque, era inevitabile.