I racconti inediti del boss pentito sui summit di mafia convocati a Cirò per preservare i fragili equilibri criminali tra clan e rinsaldare vecchie alleanze
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Le turbolenze interne alla locale di ‘ndrangheta di Sibari, le alleanze fragili tra ‘ndrine, le faide tra cutresi, i rapporti sempre sul filo del rasoio con la stella polare di tutti i gruppi della zona: il crimine di Cirò. C’è questo e altro nelle confessioni di Nicola Acri, racconti dettagliati su fatti di cui l’allora boss di Rossano sostiene di essere stato testimone diretto e che fanno luce sulla storia criminale, ancora poco nota, della costa jonica a cavallo tra le province di Cosenza e Crotone. Ampi stralci dei suoi verbali, ancora in gran parte inediti, affiorano dall’inchiesta che tenta di far luce sull’uccisione di Salvatore Di Cicco. Uno in particolare documenta come, nel 2007, equilibri di ‘ndrangheta che sembravano ormai consolidati, fossero invece sul punto di mutare radicalmente.
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In quei giorni, infatti, la ‘ndrina di Acri formava un fronte unico con quella di Corigliano e con gli zingari di Cassano nella guerra contro la famiglia Forastefano. Poco meno di un decennio prima, gli zingari avevano ottenuto il riconoscimento di clan di ‘ndrangheta - privilegio fin lì a loro inibito - proprio grazie alla benedizione di Cirò. Ora, però, qualcosa stava per cambiare. Uno dei big cirotani, Giuseppe Spagnolo alias “Peppe u banditu”, comunica ad Acri che il suo gruppo «non vuole più avere a che fare con gli Abbruzzese». La notizia coglie di sorpresa il boss rossanese che tenta di abbozzare una protesta, ma quell’altro non sembra sentire ragioni. In seguito, Acri scoprirà che l’opinione del “Bandito” non era condivisa all’unanimità in quel di Cirò, territorio all’epoca scosso da diverse turbolenze.
Vincenzo “Cenzo” Pirillo, ad esempio, un alto plenipotenziario della zona, coltivava addirittura l’idea di uccidere proprio Spagnuolo e riteneva che a sua volta Gaetano Aloe, figlio del defunto Nick e cognato del “Bandito”, avesse in animo di attentare alla sua vita. «Aveva proposito di vendetta per l’omicidio del padre nel quale era coinvolto anche Pirillo e secondo lui era il cognato ad aizzarlo». In quei mesi c’erano stati un paio di morti eccellenti all’interno della cosca e, secondo Cenzo, ciò si era verificato a causa della «scarsa lungimiranza di Spagnuolo». Acri si trova in mezzo a due fuochi e cerca di barcamenarsi in una situazione che pare sul punto di precipitare da un momento all’altro.
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Non accadrà, perché proprio in quel momento, torna sulla scena l’unica persona in grado di riportare l’ordine all’interno della consorteria: Cataldo Marincola. «Dopo la sua scarcerazione – rievoca Acri – convocò una riunione a Cirò Marina». Oltre a lui, a quel summit tenutosi in un appartamento del centro storico, avrebbero preso parte anche esponenti dei Megna di Crotone, degli Arena di Isola e dei Trapasso di Cutro. Fra i temi all’ordine del giorno, «le ambiguità» mostrate in sua assenza dai cirotani nei confronti degli alleati, in particolare degli Abbruzzese, e «e della poca chiarezza mostrata nell’appoggiare gli Arena e i Trapasso nelle faide con i cutresi».
Nei ricordi di “Occhi di ghiaccio”, Marincola «ascoltava tutti intervenendo poco nella discussione» e attribuiva la colpa di «quelle incomprensioni» alle scelte operate dal suo defunto predecessore, Natale Bruno. «Disse di aver avuto contatti con i Grande Aracri e i Nicoscia, e che questi erano disposti a fare la pace con la garanzia del crimine cirotano. Sia i Megna che gli Arena acconsentirono, riservandosi però di parlarne con le rispettive famiglie».
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Marincola però vuole approfondire soprattutto quale sia la situazione a Sibari e dintorni e nei giorni successivi lui e Pirillo incontrano nuovamente il loro referente rossanese. «Dissi loro che non comprendevo perché i cirotani si fossero avvicinati ai Forastefano, ma Pirillo minimizzò, dicendo che con loro avevano lavorato solo poche partite di droga per ragioni di buon vicinato». A seguito di questa discussione, Marincola avrebbe «rinnovato la vecchia unione tra le nostre cosche, ribadendo anche l’alleanza con gli zingari». Di lì a poco però Pirillo cade in un agguato e Acri apprende la notizia proprio da Marincola, durante un periodo di latitanza comune in quel di Camigliatello Silano. «Mi disse che Gaetano Aloe aveva fatto un casino» ma nello stesso verbale attribuisce proprio al boss la volontà di procedere con quell’eliminazione. «Anche i fratelli Farao erano a conoscenza della necessità di ammazzarlo. Lo sapevano, non si opposero e avallarono quella decisione».