Il racconto inedito della collaboratrice di giustizia del 2014, sulla carneficina del 1977: furono uccisi Maria Rosa Bellocco, il marito Mario e il figlioletto di appena nove anni. «Lui non aveva pietà, ammazzava pure i bambini». Il capomafia è morto lo scorso 22 ottobre
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«Ogni volta che andavamo al cimitero con mia nonna, quando ero bambina, vedevo ’sto posto che erano tre foto, tutte e tre insieme, e allora me lo raccontò lei». Giusy Pesce, l’11 giugno del 2014, è negli uffici del Ros Centrale, a Roma. Davanti a lei il pubblico ministero Alessandra Cerreti, oggi alla Procura di Milano, allora magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria.
La figlia di Turi, nipote di Nino Pesce “Testuni”, il mammasantissima di Rosarno, riavvolge il nastro dei ricordi. Lei, una creatura, mano nella mano alla nonna materna, nel cimitero di viale Pace e quella famiglia sepolta insieme: Mario Alessi Conte, Maria Rosa Bellocco e il figlioletto Francesco. «Me lo raccontò lei», la nonna, dice la collaboratrice di giustizia.
Il massacro: 45 anni fa
Mario, bracciante alla giornata originario di Scalea, conosce Maria Rosa e se ne innamora. La ragazza appartiene ai Bellocco, una famiglia che incute terrore, tra le più influenti e sanguinarie della Piana di Gioia Tauro. Dalla loro unione nascono due bambini, Francesco, nove anni, e Michele, di tre. È la notte tra il 31 agosto e l’1 settembre 1977, una sera come tante nella casa alla seconda traversa di via Stazione. Dopo cena, si va a letto presto. Mario non ne vuol sapere di darsi alla malavita: a trentatré anni e con una famiglia da sostenere, sgobba nei campi quando non trova lavoro come camionista e al mattino si alza di buon’ora. Maria Rosa è ancora più giovane del marito, si dedica ai bambini e non esce quasi mai di casa. Mentre tutti dormono, all’una di notte, qualcuno suona con veemenza al campanello. Mario è scosso e si precipita a vedere chi è, senza neppure indossare i calzoni. Apre la porta e viene colpito da una violenta coltellata all’addome. Entrano almeno due uomini in casa. Uno ha in mano una pistola 7.65 e spara. Mario tenta di strisciare fino al lettino del piccolo Francesco. Gli assassini non hanno pietà. Finiscono Mario. Non risparmiano neppure il bambino, svegliato e terrorizzato dal fragore dei primi spari: un colpo all’addome e uno alla testa. Maria Rosa, sconvolta, urla, raggiunge un armadio e imbraccia un fucile per proteggere il figlio più piccolo, Michele, ma in preda al panico non riesce neppure a caricarlo. I sicari le sparano quattro colpi dritti al petto, poi la sfigurano a coltellate, in viso. Lasceranno in vita solo il suo secondogenito.
Un solo condannato
È una vicina, il mattino seguente, a lanciare l’allarme. Nessuno - neppure i genitori di Maria Rosa, che abitano al piano di sopra - avrebbe avvertito gli spari, le urla strazianti ed il trambusto provocato dal massacro: tutti avrebbero continuato a dormire. La magistratura chiude presto il cerchio: Michele Bellocco, il papà di Maria Rosa, avrebbe scoperto una presunta relazione extraconiugale della figlia, sorpresa in casa sua con un altro uomo, il quale sorpreso sarebbe fuggito sui tetti.
Un’onta per l’intero clan, da lavare col sangue. La Corte d’Assise d’Appello di Palmi ritiene colpevole, quale presunto autore della strage, il solo Antonino Bellocco, fratello di Maria Rosa, mentre un altro fratello, Bernardo, già condannato in primo grado, viene assolto. Scagionati, sin dal primo grado, l’altro fratello, Pietro, e il padre, Michele.
Scrivono i giudici di Palmi: «La prima colpevole è la donna e su di essa il furore punitivo degli aggressori si è particolarmente accanito […]. La logica dell’onore vuole colpevole anche il marito, che non ha saputo essere uomo e si è tenuto l’infamia dell’infedeltà e quindi anche lui merita la mortale punizione […]. L’offesa, aggravata dalla mancata reazione del marito, ricadeva su tutta la famiglia e qualcuno doveva lavarla e sul luogo stesso teatro dell’infedeltà».
Francesca come Maria Rosa
La strage di via Stazione, a Rosarno, richiama drammaticamente, un’altra vicenda analoga: 35 anni dopo, il 18 gennaio 2013, a Rosarno viene uccisa Francesca Bellocco, colpevole di aver intrattenuto una relazione extraconiugale.
Condannato all’ergastolo il figlio Francesco Barone. Scrivono i giudici di Palmi: «Ancora una volta i Bellocco, uomini e donne, giovani e meno giovani, hanno dimostrato di anteporre ai valori della dignità e del rispetto della persona, della libertà, della solidarietà familiare, quello dell'attaccamento al peso criminale del proprio clan, per la cui preservazione, ed al fine di continuare a dominare in maniera illecita gli affari del territorio di insediamento, non hanno esitato a sacrificare la vita della loro congiunta».
Il racconto di Giusy Pesce
Torniamo all’11 giugno del 2014, quartier generale del Ros, Roma. Giusy Pesce, ex “postina” del clan, colei che portava le ’mbasciate, da e per il carcere, la ragazza ribelle decisa ad affrancare i suoi figli da un destino di sangue e malavita, è davanti al pm Cerreti. È la parte dell’interrogatorio dedicata alla figura di Umberto Bellocco, classe 1937, detto Assu i mazzi, spirato lo scorso 22 ottobre, dopo una lunga detenzione, ritenuto una sorta di eminenza nel crimine organizzato calabrese, colui che tenne a battesimo la Sacra Corona unita pugliese forgiandola secondo regole e rituali della ‘ndrangheta.
«Era il capo assoluto», spiega la ragazza, che aggiunge: «Quell’omicidio che c’è stato tantissimi anni fa […], quella donna che è stata uccisa col figlioletto nel letto e col marito […]». «Eh, ma il responsabile chi è?», incalza il pm. Giusy Pesce: «Lui, il mandante all’epoca fu lui…». La dottoressa Cerreti: «Il mandante fu Umberto Bellocco». La dichiarante: «Per pulire… Sì, sì, l’onore della famiglia […]. È un uomo temuto, perché lui non ha pietà, cioé nel senso, lui ammazzava bambini, ammazzava chiunque, chiunque sbaglia, lui non ha… non guarda in faccia nessuno […].Ogni volta che andavamo al cimitero con mia nonna, quando ero bambina, vedevo sto posto che erano tre foto, tutte e tre insieme, e allora me lo raccontò lei».
Il pm: «Che il responsabile fosse Umberto? E sua nonna che ne poteva sapere?». Giusy: «Perché era una.. Cioè, una cosa che si diceva, si sapeva, cioè anche perché la persona che lo fa non è che lo nasconde, lo nasconde alla polizia, ai carabinieri, però la gente lo sa». E poi sulla morte di Mario: «Lui si era rifiutato di uccidere la moglie […]. Diceva “No, non la ammazzate, lasciatela stare, comunque è mia moglie”. E così loro per paura che li avrebbe denunciati o qualcosa hanno ammazzato pure lui».
L’omicidio del cognato
La collaboratrice, di Umberto Bellocco, apprese anche altro: sarebbe stato lui ad ammazzare anche il cognato, «il fratello di Elvira, la moglie […]. All’epoca questo ragazzo fu fatto sparire, adesso mi sembra perché lui non voleva che la sorella stesse con lui, in quanto era più grande. Adesso non ricordo se erano… C’erano anche queste cose qua e lui per farlo star zitto l’hanno ammazzato». Il pm Cerreti sa di cosa la superteste da parlando: «È stato processato per questo fatto, Umberto Bellocco, ed è stato assolto». La replica: «È stato assolto perché si era… La moglie terrorizzata non ha mai ammesso niente che lui si litigava con il fratello. La vittima, in questo caso, si chiama Antonio Messina, fratello di Elvira, la quale nell’adolescenza si lega ad Umberto Bellocco dando alla luce una bambina cresciuta in latitanza del padre. Antonio Messina scompare da Rosarno, senza lasciare traccia, il 12 gennaio del 1989. Un anno e mezzo più tardi viene ucciso anche suo fratello Michele: 15 maggio del 1991, Carmignano sul Brenta, provincia di Padova. Per l’onore della famiglia, s’ammazza anche la famiglia.