Sperava che intorno al suo nome potesse realizzarsi un consenso più ampio dal centrosinistra e qualche leader della Casa della libertà (Gianfranco Fini) sembrava gli avesse dato garanzie. Le votazioni andranno diversamente: viene eletto al quarto scrutinio, il centrodestra vota scheda bianca
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Il settennato di Carlo Azeglia Ciampi, lascerà un segno indelebile al paese. La prima caratteristica è stata un’effettiva equidistanza, una presidenza da «garante» anziché da «governante», come era avvenuto invece per il suo predecessore, che aveva interpretato in modo molto attivo (e controverso) il suo ruolo di «traghettatore» del paese nella delicata e complessa fase della transizione verso il maggioritario.
Un’altra originale caratteristica è stato il progetto di un rilancio del «patriottismo repubblicano», destinato a diventare uno dei pilastri del settennato. Come prima mossa, Ciampi sdogana la parola «patria», la ripristina nel lessico presidenziale, forte anche del fatto che in quel momento c’era al governo una coalizione di centro-sinistra e non di destra e quindi le sue parole non potevano essere fraintese o strumentalizzate in chiave nostalgica o nazionalistica.
In questo contesto, vengono «riscoperti» l’inno di Mameli (da intonare non solo negli stadi ma in tutte le cerimonie pubbliche), il Tricolore (da conservare in ogni casa degli italiani), le ritualità civili (come la festa della Repubblica del 2 giugno, che torna ad essere festività nazionale dal 2000 in poi, con il ripristino della parata militare a via dei Fori Imperiali, e quella del 25 aprile, con l’istituzione di una cerimonia ufficiale nel cortile del Quirinale) e si restaura il monumento del Vittoriano a Roma, con scolpiti sui frontoni dell’edificio i due principi che per lui sono una stella polare: «Per la libertà dei cittadini, per l’unità della patria». Ciampi nega che il rilancio di questa «liturgia repubblicana» sia il frutto di un preciso progetto strategico: «Non dovete pensare che quanto faccio per riaffermare l’idea di patria sia studiato a tavolino. I miei collaboratori lo sanno: non c’è un piano, non c’è niente di scritto».
Ciampi, accompagna la riscoperta della patria e dei simboli repubblicani ad un lavoro della memoria volto a ritrovare i valori morali e politici del Risorgimento, saldandoli con quelli della Resistenza e della Costituzione repubblicana e proiettandoli nella partecipazione alla grande avventura dell’Unità europea. Dunque, non è un’operazione retrò, intrisa magari di connotati nostalgici. È un disegno che mira ad ancorare gli italiani ai valori comuni e quindi all’istituto presidenziale, anche per rafforzare il ruolo del capo dello Stato come garante dell’unità nazionale. Lo stile del presidente ben presto diventa popolare. Non mancheranno gli schizzi di fango (come il tentativo di coinvolgere Ciampi nell’affare Telecom-Serbia, la criticata concessione di crediti al regime di Milosevic alla vigilia della guerra, per l’acquisto della compagnia telefonica) non producono alcun effetto nei sondaggi. Si stabilisce un feeling tra il capo dello Stato e i suoi connazionali che non manca di determinare effetti anche negli equilibri politico-istituzionali.
In tale contesto, nasce il progetto della visita nei centoquattro capoluoghi di provincia, che porterà all’incontro con ottomila sindaci tutti presenti con la fascia tricolore. È una sorta di continuo e stressante bagno di folla – anche nelle province leghiste – degli italiani che si stringono attorno all’uomo-simbolo. «È stata la più bella esperienza che ha accompagnato l’intero settennato: mi ha dato sostegno, ha alimentato la mia forza morale e fisica», confesserà Ciampi nell’ultimo messaggio di fine anno (31 dicembre 2005), perché è stato un pellegrinaggio che lo ha messo in rapporto diretto con le aspettative, le ansie del «paese reale», molto più concorde e saldo di quello «legale». Con il nuovo corso berlusconiano – il capo dello Stato attiva e perfeziona quella che verrà definita la moral suasion: espressione mutuata, non a caso, dal lessico bancario e volta a indicare la «persuasione morale» che una banca centrale opera discretamente nei confronti del sistema privato del credito pur rispettandone l’autonomia.
Ciampi utilizza questo strumento per consigliare preventivamente il governo ad operare alcuni cambiamenti nei disegni di legge o nei decreti, indispensabili per non incappare in una successiva bocciatura da parte del Colle per palesi profili d’incostituzionalità. Per un certo periodo – la moral suasion viene praticata con una certa regolarità; con risultati positivi ma non senza critiche da parte dell’opposizione di centro-sinistra, soprattutto per alcune leggi (falso in bilancio, rogatorie internazionali, legge Cirami sul «legittimo sospetto», fino al «lodo Schifani» sull’immunità per le cinque più alte cariche dello Stato) particolarmente caldeggiate da Berlusconi per i suoi problemi con la giustizia e che fanno piovere sul Quirinale l’accusa di essere troppo accomodante nei confronti del governo o addirittura di essere corresponsabile di tali provvedimenti.
Tuttavia, la «coabitazione» con Berlusconi diventa sempre più difficile, malgrado l’intenso lavorio diplomatico dei rispettivi plenipotenziari (Gifuni e Letta) per smussare angoli e comporre conflitti. Gli scontri diventano più aspri, soprattutto quando Ciampi ha l’impressione che il Cavaliere, forte dell’investitura popolare, voglia menomare i poteri presidenziali o quelli del Parlamento. «Gli scontri avvenivano soprattutto in materia di nomine – ricorda Ciampi – il presidente del Consiglio riteneva che la sua controfirma indicasse una compartecipazione alle scelte, io invece sostenevo che era soltanto una convalida formale alla mia firma ma che la scelta spettasse a me e soltanto a me».
Il rapporto con Berlusconi diventa quasi conflitto sull’interpretazione delle funzioni in svariate occasioni. Ciampi attraversa anche tutta la fase successiva all’attentato alle Torri Gemelle e alla iniziativa militari degli Stati Uniti conseguente. L’iniziativa unilaterale americana verso l’Iraq, spacca l’Europa. Francia e Germania non si allineano alle scelte di Bush sostenute invece dall’Inghilterra. Berlusconi, invece, sottoscrive una lettera – insieme ad altri sette leader europei – che appoggia senza riserve la decisione di Washington. Per Ciampi è un momento difficilissimo. Pur non condividendo in toto la posizione franco-tedesca, egli non accetta l’idea che il nostro paese si schieri a rimorchio dell’unilateralismo americano in un’azione militare offensiva destinata a spaccare in due l’Europa. Ancora una volta il contrasto con le posizioni del governo in carica è palese. Per definire le caratteristiche del nostro intervento in Iraq, il capo dello Stato convoca al Quirinale un Consiglio supremo di Difesa (il 19 marzo 2003) alla presenza di Berlusconi e di mezzo governo.
«È stato probabilmente il momento più difficile del settennato – ricorda Ciampi –; il governo aveva deciso di partecipare attivamente alla guerra in Iraq. Io convocai il Consiglio supremo di Difesa e prima della riunione convocai nella mia stanza il premier e gli dissi: ‘Abbiamo due modi di concludere questa riunione: o con un documento serio in cui si fissano principi chiari o con un comunicato di maniera. Nel secondo caso, è bene che si sappia che ho già pronto un messaggio alle Camere. Questo è il testo». Berlusconi deve fare buon viso a cattivo gioco ed è costretto ad accogliere tutte le richieste di Ciampi.
Cominciata nel segno di un ampio mandato interpartitico di garante di una transizione verso il bipolarismo e il maggioritario possibilmente condivisa dalle parti, l’azione del capo dello Stato ha cambiato progressivamente natura e sembianze. Pur consapevole dei limiti costituzionali della propria autonomia, l’ex banchiere approdato al Quirinale ha rifiutato il ruolo oscuro di tutore e di garante dell’unità della maggioranza, ponendosi invece sovente nelle condizioni di vero e proprio contropotere rispetto al governo in carica e quindi di moderatore dei suoi eccessi in quanto custode e garante dell’unità nazionale. Un cambiamento che non ha portato ad una svolta presidenzialista, ma ha certo aumentato i poteri dell’inquilino del Quirinale nella prassi costituzionale. Si è detto come e con quali strumenti Ciampi – pur non particolarmente avvezzo a manovrare le leve della politica – abbia svolto questo ruolo, grazie anche al supporto prezioso derivatogli dal crescente consenso popolare per le sue iniziative di «patriottismo repubblicano» e di recupero dei valori e dei simboli della memoria comune. Ha rispettato il suo ruolo di rappresentanza di tutti gli interessi nazionali, ha esercitato un magistero costante di mediazione culturale e istituzionale, non mancando di informare la sua azione ad uno spirito di pedagogia repubblicana. Aspetto, quest’ultimo, emerso con particolare evidenza alla scadenza del mandato, nel 2006, quando veniva a coagularsi un impulso politico abbastanza ampio per una possibile rielezione.
Ciampi – anche in considerazione dell’età avanzata – respingeva con fermezza queste pressioni, ricordando che «i costituenti avevano previsto un periodo abbastanza lungo, sette anni, proprio per escludere una rielezione. Mal si confà alla forma repubblicana del nostro Stato il rinnovo di un mandato di per sé lungo». Certo, non sono mancati gli errori di valutazione e le delusioni in un percorso non sempre omogeneo e lineare che lo ha trasformato da «garante della transizione» a «garante della Costituzione» (da lui definita «Bibbia civile») nel momento in cui ha compreso che i reiterati appelli al dialogo bipartisan per le grandi riforme istituzionali erano destinati a cadere nel vuoto ovvero venivano recepiti a proprio uso e consumo dalla maggioranza di governo. Lo stesso Ciampi nel discorso di commiato alle alte cariche dello Stato (dicembre 2005) ha ammesso: «Non sarei sincero se non esprimessi il rammarico di non essere stato sempre ascoltato... specie nelle mie esortazioni al dialogo». Un disappunto che ne conferma le affinità ma anche la comunità di intenti con l’Einaudi delle «prediche inutili».
Tuttavia non c’è dubbio che – anche in conseguenza della crisi di un sistema politico incapace di mettersi in sintonia con le aspettative popolari – il settennato ciampiano ha segnato un forte ricupero per l’istituzione presidenziale, ne ha rafforzato il ruolo consegnando un’eredità in qualche modo innovativa che il successore – con le proprie peculiari e diverse caratteristiche di homo politicus – cercherà di preservare e di sviluppare.
È l’ora di Giorgio Napolitano, il primo ex comunista sul colle
«Non sarò mai solo il presidente della maggioranza che mi ha eletto. Sarò il presidente di tutti». È il pomeriggio del 15 maggio 2006, quando Giorgio Napolitano pronuncia il suo discorso d’insediamento davanti alle Camere come undicesimo presidente della Repubblica. Mai nel passato un impegno presidenziale ad essere rigorosamente super partes era stato così esplicito e solenne. Anzi, in qualche caso questo aspetto era stato volutamente sottaciuto da parte di chi era stato appena eletto al Quirinale, proprio perché il suo compito primario era quello di essere il garante dell’unità della maggioranza al governo. Invece Napolitano imbocca subito una via diversa. La ragione è chiara.
A differenza dell’elezione del suo immediato precedessore, Carlo Azeglio Ciampi, avvenuta al primo scrutinio con una votazione trasversale, quasi plebiscitaria, quella di Napolitano si svolgeva nella scia di un risultato elettorale che aveva spaccato in due il paese e aveva suscitato aspre polemiche. Dopo un paio di giorni di sterili trattative dietro le quinte nella vana ricerca di un accordo con l’opposizione, l’Unione – vincitrice della prova elettorale per soli 24.577 voti (risultato peraltro contestato dal centro-destra) – decideva di puntare su un proprio candidato per il Colle. Con la nomina del leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti, alla guida di Montecitorio e del «popolare» Franco Marini alla guida del Senato, era quasi scontato che la poltrona del Quirinale toccasse ad un esponente diessino della coalizione. Si affacciava come una meteora la candidatura di Massimo D’Alema, ma prendeva subito maggiore slancio e consistenza quella di Giorgio Napolitano che – per il suo passato di uomo delle istituzioni, oltre che di prestigioso dirigente politico – aveva tutte le carte in regola per aspirarvi. Napolitano sperava fino all’ultimo che intorno al suo nome potesse realizzarsi un consenso più ampio della maggioranza di centro-sinistra e qualche leader della Casa della libertà (Gianfranco Fini) – a quanto pare – gli aveva dato affidamenti in tal senso. Comunque le votazioni vanno diversamente.
Napolitano viene eletto al quarto scrutinio con 543 voti su 990: tutti provenienti dal centro-sinistra, mentre gli esponenti del centro-destra – a cominciare da Silvio Berlusconi – depongono ostentatamente nell’urna la scheda bianca. È la prima volta che un ex comunista approda alla massima carica dello Stato. Lo aveva preceduto alla presidenza del Consiglio un altro ex comunista, Massimo D’Alema, e la buona prova di quel governo gli aveva preparato la strada.
In ogni caso, si tratta di un evento di significato storico, perché è la dimostrazione definitiva che la «guerra fredda» è davvero archiviata e la conventio ad excludendum nei confronti dei comunisti è ormai un reperto archeologico. Tuttavia il rischio di rappresentare soltanto una metà del paese è l’assillo che Napolitano avverte con particolare intensità proprio nel momento in cui può legittimamente mostrarsi soddisfatto per l’ambito riconoscimento.
Ecco quindi che – nel suo discorso d’investitura – fa proprio il messaggio di Ciampi sulla «memoria condivisa», esalta la Resistenza ma senza «ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni» perché la storia repubblicana, consolidata nei valori della Costituzione, può essere ripercorsa e vissuta solo in uno «spirito di verità». Rende omaggio all’impegno europeistico del suo precedessore, in sintonia con la lezione di De Gasperi e Spinelli, tutti fautori di «un’Europa seconda patria». Ma soprattutto non sfugge alla preoccupazione per il «forte travaglio» apertosi nel paese dopo la prova elettorale, traendone spunto per denunciare «la pura contrapposizione» e «l’incomunicabilità» tra i due principali schieramenti, sintomo di un male italiano («l’insufficiente maturazione nel nostro paese del modello di rapporti politici ed istituzionali già consolidatosi in altre democrazie occidentali»), e per esortare maggioranza ed opposizione ad un nuovo tipo di rapporti, più costruttivo, proprio di un sistema politico bipolare.
Con un monito a futura memoria: «È tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza anche in Italia», destinato a diventare uno dei Leitmotiv (purtroppo inascoltati) del settennato. Al momento dell’elezione, Napolitano è senatore a vita (nominato da Ciampi nel 2005) ed è in procinto di compiere ottantuno anni (essendo nato a Napoli il 29 giugno 1925). Vanta quindi un’esperienza politica di oltre mezzo secolo, che risale agli albori della Repubblica e che lo ha portato a ricoprire incarichi di rilievo e ad assumere un ruolo sovente cruciale nella storia del Partito comunista italiano; ma è anche e soprattutto – come si è detto – un uomo di parte e di partito, approdato ai vertici delle istituzioni nazionali ed europee come presidente della Camera dei deputati negli anni roventi di Tangentopoli e successivamente come presidente della Commissione affari costituzionali del Parlamento europeo. Dunque, è da questa lunga, densa e talvolta anche sofferta esperienza personale e politica che bisogna partire per comprendere le direttrici della sua azione al Quirinale.
Se si volesse cercare un’impronta specifica, originale, impressa da Napolitano all’avvio del settennato non si potrebbe non tener conto del patrimonio di esperienza accumulato in quasi sessant’anni di attività politica, culminato con incarichi di natura istituzionale. Insomma, è il connotato della politica, nella sua accezione più propria e più alta, che fa il suo ingresso al Quirinale e che influenzerà tutte le attività del capo dello Stato, sovente – verrebbe da dire – al di là delle sue stesse intenzioni. È il nenniano politique d’abord che rivive sul Colle, segnando una prima differenza con il suo predecessore, approdato alla politica attraverso altre vie, peraltro non meno nobili.
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