Giorgio De Stefano è «capo ed organizzatore del sodalizio unitariamente inteso, in qualità di partecipe della componente “invisibile” della ‘ndrangheta – unitamente a pochi altri membri, nel numero di sei-sette, tra i quali certamente il sodale Paolo Romeo – struttura di vertice chiamata a svolgere compiti di direzione strategica e, in ultima analisi, di gestione “occulta” delle scelte di politica criminale del sodalizio di stampo mafioso denominato ‘ndrangheta – la cui natura unitaria è stata giudizialmente accertata nell’ambito di numerose sentenze passate in giudicato non solo di questo distretto giudiziario (fra le altre, quelle rese all’esito dei processi cc.dd. Crimine, Infinito e Meta) – presente ed operante sul territorio della provincia di Reggio Calabria, sul territorio nazionale ed all’estero, costituita da numerosi locali, caratterizzata da strutture a carattere intermedio con funzioni di coordinamento e controllo, articolata in tre mandamentitirrenico, ionico e Reggio Città – e dotata di organo collegiale di vertice denominato “Provincia”, la cui funzione è essenzialmente quella di garantire il rispetto delle regole di vita di ‘ndrangheta e di esteriorizzare le decisioni assunte dalla componente “invisibile”, a beneficio della “base” del sodalizio».

 

Con queste parole il gup di Reggio Calabria, Pasquale Laganà, scrive un passaggio storico nella lotta alla 'ndrangheta. Si tratta delle motivazioni – depositate ieri – del processo abbreviato “Gotha”, che ha visto la pesantissima condanna, fra gli altri, dell’avvocato Giorgio De Stefano a vent’anni di reclusione.

 

Detrattori e dileggiatori di professione, dunque, sono stati serviti: in poche righe, il giudice – sebbene ancora in primo grado – condensa al meglio il fulcro di un’inchiesta che ha messo insieme l’élite delle indagini degli ultimi anni, sotto il sapiente coordinamento del pubblico ministero Giuseppe Lombardo, oggi procuratore aggiunto a Reggio Calabria. A leggere le oltre 2500 pagine di sentenza, si coglie a piene mani la caparbietà di chi è andato a rispolverare archivi ormai chiusi a doppia mandata, valorizzandoli ed attualizzandoli attraverso una certosina opera di ricostruzione. Perché – e lo ribadiamo come fatto in passato – sono state tante e tali le forze che hanno spinto affinché non si arrivasse mai ad un simile risultato, che nulla era scontato alla vigilia di questo processo. Ed invece, proprio all’indomani di una partecipata manifestazione contro la prevaricazione mafiosa che fa scorgere segnali positivi, arrivano delle pagine che riavvicinano Reggio Calabria alla verità, dopo essere stata oppressa da una cappa fatta di inconfessabili relazioni fra Stato ed antistato.

Da concorrente esterno a capo indiscusso

Ma per comprendere pienamente la storia che ha vissuto la città dello Stretto negli ultimi anni, occorre necessariamente fare un passo indietro e andare al processo “Olimpia 1”, dove Giorgio De Stefano viene tratteggiato come soggetto che «pur non facendo parte del sodalizio criminale di riferimento assicura nel tempo (quanto meno negli anni 1986-1989) il proprio concreto, specifico e causalmente efficiente apporto al mantenimento in vita ed al rafforzamento dell’organizzazione denominata cosca De Stefano», scrive il gup. Un ruolo che si è ampiamente elevato fino a farlo divenire capo assoluto dopo l’arresto di Giuseppe De Stefano, figlio di Paolo.

Segretezza e riservatezza

Sono soprattutto i collaboratori di giustizia, le cui parole confluiscono in abbondanza nel procedimento, a delineare l’inserimento di Giorgio De Stefano a partire dalla fine degli anni ’90, al vertice della ‘ndrangheta, in un contesto criminale che – scrive il gup - «interagisce stabilmente attraverso associazioni segrete caratterizzate dalla “segretezza” dei “fini” e dalla “riservatezza” dei “metodi” (massoneria deviata), con il mondo dell’imprenditoria, della finanza, della magistratura e delle istituzioni». Ed è proprio attraverso la veicolazione delle strategie criminali a soggetti insospettabili (i cosiddetti “cerniera” e “riservati”) che la cosca De Stefano si è assicurata l’operatività apicale». Soggetti, questi, che devono creare un’interfaccia «tra l’organismo di vertice e la base territoriale dell’associazione».

Il professore e il bar Malavenda

Un modus operandi che si rinviene nella vicenda trattata nell’inchiesta “Sistema Reggio”, quando si registra l’intervento del professore Domenico Pellegrino, detto Mimmo”, «personaggio dalle incerte e dubbie risorse relazionali», scrive il gup. È proprio Pellegrino il soggetto che media per conto di Giorgio De Stefano, per la riapertura del bar Malavenda, «con il precipuo intento di evitare che gli Stillittano (‘ndrina da sempre conosciuta, nel contesto criminale cittadino, per il temperamento non certo “mite” dei suoi esponenti di vertice, i fratelli Mimmo ed Enzo Stillittano, odierni coimputati, non a caso appellati da Franco Roberto con il termine “malazionari”), portino ad ulteriore conseguenze l’azione di contrasto intrapresa nei confronti di un esponente di vertice della cosca Serraino (Nicolò Antonino alias Pasticcino), prima, e dell’imprenditore Carmelo Salvatore Nucera, poi». E per chi pensa che Giorgio De Stefano non possa essere, ad un tempo, soggetto “riservato” e “visibile”, il gup risponde in modo chiaro: nell’inchiesta “Sistema Reggio”, De Stefano agisce sia come vertice occulto (con l’obiettivo di mantenere gli equilibri del mandamento di centro), sia come vertice della cosca, unitamente al cugino Dimitri De Stefano.

Le relazioni con Giovanni Zumbo

Ma fra i personaggi insospettabili – ed inquietanti ad un tempo – vi è anche l’ormai noto Giovanni Zumbo, alias “lo spione”, uomo in odore di servizi segreti, con un passato da commercialista e amministratore di beni giudiziari, ma oggi riconosciuto interlocutore delle cosche di ‘ndrangheta e dei De Stefano in particolare. È proprio con Zumbo che Giorgio De Stefano si confronta allorquando occorre riorganizzare la cosca, all’indomani dell’arresto di Giuseppe De Stefano. Lo si evince – spiega il gup – da una conversazione fra Giorgio e il figlio Giovanni, dove si fa riferimento proprio a vicende che si legano a Zumbo. Questi, fra l’altro, in alcune conversazioni in carcere con l’ex moglie, dopo aver detto di «lavorare per lo Stato», giustificando in tal modo le sue aderenze ai servizi, spiega di aver «agito solo per ragioni di affetto e tutela nei confronti dell’avvocato» il cui nome, si deduce dai successivi accertamenti, è quello di «Giorgio», operativo in contesti criminali. E sui rapporti fra Zumbo e i De Stefano, arrivano dichiarazioni genuine fatte da un ex dipendente di Zumbo, il quale dice apertamente all’ex moglie dello “spione” che «il colorificio Zumbo rientrava sotto la protezione della cosca De Stefano a cui i titolari pagavano il “pizzo”». E sosteneva poi che «Giovanni Zumbo era amico di tale Giorgio De Stefano», che però non è l’avvocato ma Giorgio Sibio Condello, figlio naturale di Paolo De Stefano.

Le persone riservate

E sul tema sono fondamentali anche le dichiarazioni dell’unico pentito intraneo alla cosca De Stefano. Quel Nino Fiume che, in passato, frequentò la casa di Archi per lungo tempo, accompagnando Giuseppe De Stefano nei suoi diversi impegni. Fiume ricorda che il sistema contava sulla presenza di «persone riservate» e chi operava in tale ambito «per le persone non era un affiliato, ma per noi era come se fosse affiliato, perché era una di quelle persone a disposizione» e «lavoravano nell’ombra», costituendo i «contatti… cosiddetti… “nobili”», in ordine ai quali Giuseppe De Stefano era solito dire «Questo ‘ndi l’amu a tiniri ‘mmucciatu”: cioè, “Questo dobbiamo cercare sempre di tenerlo più... più... meno in vista possibile”… che, anche se non sparavano, erano dentro lo stesso» alla cosca, «perché aiutavano i De Stefano in tutti quelli che erano discorsi economici ed erano tanti altri» e costituivano «la parte più evoluta della ‘Ndrangheta».

Zumbo, insomma, apparteneva di diritto a quella categoria di “riservati” della ‘ndrangheta, spesso inseriti a pieno titolo nella cosiddetta “Reggio bene”, con un passato di conoscenza con Giuseppe e Carmine De Stefano.

Il codice fra Giuseppe e Giorgio

Anche sui rapporti fra Giuseppe e Giorgio De Stefano, le parole di Fiume sono molto indicative. L’avvocato era ritenuto il «terminale con i massoni» e le comunicazioni con il cugino Giuseppe erano fatte di «segnali, mezze frasi, mezze parole», tanto che «se Giuseppe De Stefano mi mandava, per dire: “Vai dall’avvocato Giorgio e portagli due camicie” Eh, quel “portare due camicie” aveva un significato», poiché «era l’avvocato Giorgio De Stefano che teneva in mano determinate situazioni». Ciò avveniva anche perché De Stefano «Giorgio era più grande e era quello che noi – diciamo – lo chiamavamo “il Consigliore”... ».

Le relazioni istituzionali

Non è un appellativo casuale quello che Giorgio De Stefano aveva. Egli è l’erede di quelle «relazioni riservate che il defunto boss Paolo aveva iniziato ad intessere ed a coltivare sin dagli anni ‘70». Per il gup Laganà «sono quei legami che stratificano e consolidano la potenza dei De Stefano, la quale si fonda non solo sulla “nota” e “visibile” componente operativa, ma soprattutto sulla capacità di intessere riservatamente relazioni con il mondo imprenditoriale, politico ed istituzionale, nonché con gli ambienti massonici, di cui hanno dato prova, con diversità di ruolo e di “operatività”, i coimputati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo. Sono costoro, infatti, che intessono relazioni con il mondo dei “riservati” del sodalizio, con soggetti insospettabili, professionisti al servizio della Giustizia, come il commercialista Giovanni Zumbo». Ed è proprio facendo leva su questo humus di borghesia mafiosa che «Giorgio De Stefano, al pari del sodale ed amico Paolo Romeo, è divenuto promotore, dirigente ed organizzatore della componente riservata della ‘ndrangheta, agendo stabilmente quale componente apicale occulto del sistema criminale di stampo mafioso che trova la sua sublimazione nel collaudato “Sistema Reggio”».

 

Consolato Minniti