Ognuno aveva un compito e qualcuno con cui coordinarsi. Nomi e singole mansioni che avrebbero svolto all’interno dell’organizzazione di trafficanti di droga, smantellata la scorsa notte dalla guardia di finanza, sono riportati all’interno dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip distrettuale su richiesta della procura antimafia di Reggio Calabria. Un documento imponente nel quale sono confluiti mesi di indagine, intercettazioni, pedinamenti e monitoraggio di mezzi e uomini.

Il sistema collaudato

Dalla minuziosa ricostruzione sarebbe emerso che, dopo l’indicazione ai referenti locali da parte dei fornitori sudamericani del nominativo della nave in arrivo e del contenitore con la sostanza stupefacente, l’importazione passava sotto la supervisione dei dipendenti portuali coinvolti, i quali si attivavano affinché il container “contaminato” venisse sbarcato al momento opportuno e posizionato in un luogo convenuto.

Avuta la disponibilità dello stesso, la squadra di portuali infedeli provvedeva a collocarlo in un’area “sicura”, appositamente individuata, per consentirne l’apertura e, quindi, lo spostamento del narcotico in un secondo container (abitualmente indicato dagli indagati come “uscita”) ritirato, nelle ore successive, da un vettore compiacente e trasportato nel luogo indicato dai responsabili dell’organizzazione.

È proprio la ricostruzione della complessa fase dello spostamento dei container all’interno del porto che avrebbe consentito di disvelare la modalità utilizzata dai portuali per il trasbordo dello stupefacente, da loro stessi denominata sistema del “ponte”. Nello specifico, individuata l’area di sbarco idonea allo scopo, il contenitore “contaminato” veniva posizionato di fronte al contenitore “uscita”, lasciando trai due la sola distanza necessaria all’apertura delle porte per lo spostamento della merce illecita.

Al di sopra dei due container, quindi, ne veniva adagiato un terzo, denominato appunto “ponte”, con lo scopo di celare, anche dall’alto, i movimenti nell’area sottostante. Una volta allestita l’area, al fine di non destare sospetti, i portuali infedeli venivano trasportati sul luogo delle operazioni, nascosti all’interno di un quarto contenitore, che veniva adagiato nella medesima fila ove era stata allestita la struttura.

Infine, per evitare che soggetti estranei ai fatti intralciassero le operazioni illecite, due straddle carrier (veicoli speciali adoperati per la movimentazione dei container), condotti dagli indagati, stazionavano ai lati della fila di contenitori dove era stato costruito il ponte, per impedirne l’accesso e monitorare, dall’alto, l’eventuale arrivo delle forze di polizia.

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Il vertice dell’organizzazione: chi importava la cocaina

Secondo gli inquirenti, che hanno monitorato le varie fasi del traffico, al vertice del sistema ci sarebbero Salvatore Copelli, Vincenzo Brandimarte, Domenico Iannaci, Vincenzo Larosa, Domenico Sciglitano, Antonio Sciglitano, Girolamo Giovinazzo, Roberto Ficarra.
Secondo la Dda di Reggio Calabria sarebbero loro i promotori e organizzatori dell’associazione perché «coordinavano le operazioni di importazione di ingenti quantità di sostanza stupefacente tipo cocaina, giunta in Italia dall’America» sfruttando la porta di entrata di Gioia Tauro anche grazie al supporto di Rocco Iannizzi e Damiano Rosarno.
Questi si coordinavano con «i committenti e con un gruppo di portuali (in particolare Girolamo Fazari)».

I portuali infedeli: la coca prelevata dai container

Una volta informati sull’arrivo della droga, entravano in campo i presunti portuali infedeli: Galliano Aseo, Domenico Bartuccio, Rosario Bonifazio, Girolamo Fazari, Salvatore Bagnoli, Salvatore Dell’Acqua, Domenico Longo, Nazareno Valente Antonio Zambara, tutti dipendenti della società terminalista Medcenter container terminal, nonché Pasqualino Russo dipendente della Sea work service e Santi Fazio della Logistic multiservices srl.


Una squadra, sostiene la procura antimafia di Reggio Calabria, al servizio dell’organizzazione criminale, «con il ruolo di esfiltrare la cocaina occultata all’interno dei container giunti a bordo delle navi cargo al porto di Gioia Tauro e dunque assicurare l’uscita» della cocaina.
In particolare Rosario Fazio e Girolamo Fazari, in base a quanto si apprende dall’ordinanza di custodia cautelare, «coordinavano l’attività degli altri portuali che procedevano al materiale trasbordo dei carichi di cocaina; Galliano Aseo, sfruttando la mansione di addetto alla “pianificazione nave” forniva indicazioni al gruppo in ordine agli sbarchi ed alla collocazione dei container e posticipava lo sbarco dei container agli orari di interesse per il gruppo in modo da agevolare l’esfiltrazione».

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Gli autotrasportatori: ecco chi faceva uscire la coca dal porto

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, la parte finale nell’organizzazione nel sistema sarebbe toccato a dipendenti di due ditte di autotrasporto: Domenico Gulluni, Alessandro Cutrì, Salvatore Cananzi, Renato Papalia e Giuseppe Papalia. Nelle carte si legge che gli autotrasportatori sfruttando il fatto di lavorare con ditte accreditate al porto di Gioia Tauro «assicuravano l’uscita dei carichi di cocaina dal porto previa individuazione del container utilizzato per l’uscita e successiva consegna del carico nei luoghi indicati dai capi dell’associazione».
Un sistema, quindi, ben congeniato e strutturato, all’interno del quale ognuno avrebbe avuto un compito prestabilito e indirizzato a permettere alle famiglie di ‘ndrangheta dei Piromalli di Gioia Tauro, Crea di Rizziconi, Alvaro di Sinopoli, Gallico di Palmi, Facchineri di Cittanova e Auddino-Ladini-Petullà di Cinquefrondi di continuare a gestire il lucroso traffico internazionale di cocaina con l’America Latina.