Il medico Fiaschè era stato accusato di non aver provveduto tempestivamente a predisporre il cesareo dopo la diagnosi di sofferenza fetale. Il fatto si verificò nel giugno 2014
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La quinta sezione penale della Cassazione ha depositato le motivazioni della sentenza con la quale il 3 novembre scorso ha rigettato il ricorso di Rocco Fiaschè, 61 anni, di Rosarno, ginecologo dell’ospedale “Jazzolino” di Vibo Valentia. Va così definitiva la condanna a 8 mesi per il reato di procurato aborto colposo. La sentenza di secondo grado era stata emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro il 19 ottobre 2020 ed era stato rideterminato in senso favorevole all’imputato il trattamento sanzionatorio con la revoca delle statuizioni civili a seguito della revoca della costituzione della parte civile.
Rocco Fiaschè era finito sotto processo in qualità di medico di turno presso il reparto di ginecologia dell’ospedale di Vibo Valentia ed era accusato «di non aver provveduto tempestivamente, secondo le linee guida di riferimento, a predisporre l’intervento urgente di taglio cesareo nei confronti di Maria Antonietta Ferrinda nei trenta minuti successivi all’avvenuta diagnosi di sofferenza fetale. In particolare, all’imputato è stato contestato di aver omesso di attivarsi per effettuare l’intervento in contemporanea con altro analogo cui si era dedicato, allertando il secondo medico di turno ed il primario al fine della predisposizione di una seconda equipe medica, così non impedendo l’interruzione della gravidanza per morte del feto». Il piccolo Santiago Arena, di Tropea, è morto il 2 giugno 2014.
Secondo la Cassazione, «i giudici di merito, contrariamente a quanto asserito dalle difese, hanno correttamente tracciato gli obblighi organizzativi gravanti su Fiaschè, distinguendoli da quelli propri del primario del reparto. L’addebito omissivo, difatti, non riguarda il non aver posto rimedio ad asserite carenze strutturali e di personale del nosocomio in periodo festivo, bensì di non aver adoperato risorse presenti in ospedale e personale prontamente reperibile, come riconosciuto in particolare dalla sentenza di primo grado».
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