Uscito dal programma di protezione, l’uomo aveva cercato di rifarsi una vita acquistando un locale in Veneto ma un avvertimento minaccioso dalla Calabria ha cambiato tutto. La sua denuncia: «Per 14 anni ho collaborato con lo Stato, mi sento abbandonato e deluso»
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«Avevamo acquistato un locale e andava tutto bene: dopo circa sei mesi è arrivato un messaggio sul cellulare di mia sorella che vive in Calabria. Era un messaggio con minacce di morte per me e per la mia famiglia: erano indicati sia l’indirizzo preciso del locale che quello dell’abitazione che avevo preso in affitto». Sono le parole dell’ex reggente di un clan del Cosentino che è anche un ex collaboratore di giustizia. Uscito dal programma di protezione dopo 14 anni, aveva cercato di ripartire ma la sua vecchia vita si è riaffacciata nel presente e gli ha tolto tutto.
L’uomo lo racconta al Gazzettino scegliendo di mantenere l'anonimato: nel Nord-Est aveva cercato di ricostruire la propria esistenza, prima che qualcuno scoprisse tutto e lo costringesse a ripartire da zero. Oggi è costretto a vivere in macchina assieme a figlia, moglie e cognato, «un paziente oncologico già operato due volte». Il tentativo di rientrare nel programma di protezione è fallito «dopo 14 anni dedicati a collaborare con la giustizia, come è giusto che fosse». Il futuro è un’incognita, dopo quel messaggio che ha riaperto vecchie paure.
La fuga dal Veneto dopo le minacce della ’ndrangheta
«Una volta saputo delle minacce – racconta l’ex boss – ho chiesto consiglio all’avvocato e chiamato subito i referenti con i quali ero rimasto in contatto, come previsto, anche se uscito dal programma di protezione. Mi hanno consigliato di denunciare e così abbiamo fatto: è stato avvisato il Servizio centrale di protezione. Qualche giorno dopo mi è stato comunicato dai referenti che il Servizio centrale aveva detto che da quella città dovevo andare via perché ero bruciato». La fuga è precipitosa: il locale viene svenduto a metà del prezzo di acquisto e la famiglia si allontana dal Veneto.
Il tentativo di rientrare nel programma di protezione fallisce: «La domanda è stata rigettata dopo tanti mesi. Mi sono allontanato per questioni di sicurezza perché avevo paura per i miei figli e la mia famiglia».
L’ex pentito ricorda nell’intervista le ombre del proprio passato: «Ero il reggente della cosca: trattavamo droga in paesi esteri, Albania, Grecia. Mi occupavo di tutto: usura, estorsioni. Operavamo per lo più in Calabria ma in molti Comuni, una ventina», dice sempre al Gazzettino.
La storia inizia anche con uno dei (tanti) ostacoli opposti dalla burocrazia: «Prima di uscire dal programma di protezione avevo chiesto allo Stato di cambiarmi il cognome e mi è stato negato. Avevo pensato che qualcuno potesse rintracciarmi: mentre sei sotto protezione tutto viene oscurato, non avevamo conti né potevamo lasciare tracce sui social. Fino ad allora nessuno ci ha minacciato. Senza il cambio di cognome, ovviamente, con la tecnologia di oggi chiunque può riuscire a rintracciarci».
«Ho già subito un agguato in cui è stato ucciso un mio parente»
Lo step successivo, sempre su consiglio dell’avvocato, è quello di rivolgersi nuovamente alla giustizia. Questa parte del racconto è la più amara per l’ex pentito, che – a suo dire – riesce ad avere un breve colloquio con la Procura, senza ottenere risposte: «Io ho dedicato alla collaborazione 14 anni della mia vita, la giustizia neanche 5 minuti per ascoltare quello che mi sta accadendo. Mi hanno lasciato ad aspettare all’esterno con tutti i rischi del caso».
Altri fantasmi dal passato riaffiorano in quelle ore di attesa: «Pensavo che qualcuno avrebbe potuto riconoscermi e farmi del male. Ho già subito un agguato: in quell’occasione io mi sono salvato ma un mio parente è stato ucciso». Quell’agguato lo aveva convinto a lasciare la Calabria «per salvaguardare la mia famiglia. Stavo per cominciare a lavorare, ero all’estero, poi io ho deciso di collaborare con la giustizia da uomo libero. In quel momento non avevo nessuna condanna, le condanne sono arrivate dopo che mi sono autoaccusato».
Oggi prevale la delusione «perché in questi 14 anni mi sono comportato, come è giusto che sia, da persona per bene, mi sono fatto anche 5 anni di carcere: tutti possono controllare come mi sono comportato in questi anni. Non pensavo che finisse così dopo tanti anni di sacrifici: non è facile vivere sotto protezione, non sto a raccontare tutte le cose che hanno passato i miei figli».
«Sono un padre disperato, da 40 giorni dormiamo in auto»
Il presente è drammatico: «Non ho più niente, al momento dormiamo in macchina con mia figlia, la piccola, di 14 anni. Sono oltre 40 giorni che chiedo aiuto a chiunque. Ho chiesto aiuto alle associazioni private, che stanno cercando di darmi assistenza, poi ho chiesto aiuto ai servizi sociali al Comune, al Comandante dei Vigili, al presidente Zaia, sto chiedendo a tutti perché sono un padre disperato e non so cosa fare. Poi con i miei trascorsi non so dove andare, di certo non posso ritornare in Calabria. Per non parlare della ricerca di un lavoro: se guardano i miei precedenti è complicato».
«Non ho chiesto soldi – continua l’uomo – anche se sono disperato perché abbiamo autonomia al massimo per una settimana: stiamo mangiando soltanto panini da 40 giorni e così possiamo resistere soltanto per un'altra. Ho chiesto soltanto un alloggio di 5-6 mesi per ricominciare a vivere. Ho anche altri figli che vivono al Nord da parenti per stare al sicuro e anche perché non so dove farli dormire. Sono ragazzi giovani, hanno tanta voglia di lavorare. A noi basterebbe un niente, un alloggio provvisorio e in pochi mesi la nostra vita potrebbe cambiare in un attimo senza essere costretti chiedere niente a nessuno».