Il suo colloquio con il boss di Filandari Leone Soriano. I soldi per l’assistenza legale all’amico Giuseppe Peppone Accorinti e «i Riggitani» che lo volevano morto. E poi la brutale violenza per chi fu scostumato con la madre e la sorella
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Eventi che cambiano il corso degli eventi. Che mutano storie e destini. Emanuele Mancuso, per esempio, era predestinato alla carriera mafiosa. Figlio di un boss, Pantaleone alias l’Ingegnere, esponente della temutissima ala dei nipoti del clan Mancuso, ovvero i figli del vecchio Domenico (Peppe detto Mbrogghjia, il più potente e sanguinario, Diego, Ciccio e, appunto, Luni l’Ingegnere).
Pronipote degli «zii grandi»: il defunto Luni Vetrinetta, Antonio, Giovanni e soprattutto Luigi, il capo del Crimine della provincia di Vibo Valentia, principale imputato del maxiprocesso Rinascita Scott.
L’operazione Nemea
La storia di Emanuele Mancuso cambia all’alba all’8 marzo del 2018. La Procura antimafia di Catanzaro e i carabinieri di Vibo Valentia eseguono i fermi che disarticoleranno il clan Soriano di Filandari: viene chiamata operazione Nemea.
In mezzo alla retata ci finisce anche Emanuele. È giovane, ribelle, sa maneggiare strumenti elettronici e droni, un’autorità nella produzione di marijuana. E la sua affinità con i Soriano è qualcosa che appare quasi come rivoluzionaria. Perché è alla regia della sua famiglia che fu attribuito, senza mai riscontro processuale, l’attentato che doveva fare strage di tutti i Soriano, ma che finì con l’uccidere due innocenti, i fratellini Pesce.
E perché sarebbero state le strategie criminali dello zio Peppe l’origine della catena di eventi che portò all’uccisione e alla scomparsa di Roberto Soriano, omicidio per il quale oggi sono imputati i boss Peppone Accorinti e Saverio Razionale.
La scelta di collaborare
Emanuele Mancuso finisce dentro: è giovane, ribelle, borderline, ma è un ragazzo intelligente, innamorato e da poco papà. Ha l’occasione per chiudere con il passato e provare a rifarsi una vita, a dare un futuro migliore alla nuova famiglia che ha creato. Ciò però significa compiere un atto di immane coraggio: collaborare con la magistratura, accusare se stesso nella consapevolezza di dover comunque saldare un conto la giustizia, accusare il clan d’origine, il padre, il fratello, perfino la madre e poi zii, cugini, affiliati, amici di un tempo.
Emanuele si fida del procuratore Nicola Gratteri e dei suoi magistrati e inizia a parlare. La sua è una collaborazione autentica, spontanea, lineare e sincera. Pochi mesi dopo, grazie alle sue rivelazioni, consentirà alla Squadra mobile di Vibo Valentia di mettere a segno l’operazione Giardini segreti, con una nuova pioggia di arresti e, soprattutto, con un sequestro record di piantagioni di marijuana.
Emanuele e Leone
Offrirà, il suo narrato, un contributo prezioso per quella che, il 19 dicembre 2019, diverrà la colossale retata Rinascita Scott. Ed in Rinascita Scott viene acquisita pure un’intercettazione (forse l’ultima prima della decisione di saltare il fosso) utile a definire equilibri e contesti, utile a rammentare chi fosse Emanuele prima del suo clamoroso pentimento.
Sono da poco passate le undici del mattino, è il 13 febbraio 2018, in pratica tre settimane prima dell’operazione Nemea. I carabinieri del Nucleo investigativo di Vibo Valentia hanno inoculato un virus sullo smartphone di Francesco Parrotta, stretto sodale del boss di Filandari Leone Soriano. E quello smartphone diventa una cimice formidale. Si sente un giovane entrare, educatamente: «È permesso?». «Prego, chi è?», replica Leone Soriano.
«Io, Emanuele sono». «Ah Emanuele, dimmi! Che è successo?». E Mancuso: «Posso?». Il confine fra buone maniere e deferenza è labile: è sempre un Mancuso davanti a un capomafia che porta un cognome diverso.
Era lì per portare dei soldi. Soldi da «regalare» a Giuseppe Soriano, figlio di Roberto, nipote di Leone. Giuseppe era un suo amico ed a lui, già detenuto, intendeva pagare, per intero le spese da sostenere per una buona difesa processuale. La madre di Giuseppe aveva rifiutato l’offerta, lo zio Leone invece accetta: «E lasciaglieli…». Emanuele il generoso.
Attenti a Peppone
La conversazione è interessante. Si sviluppa su Peppone Accorinti, il pericolosissimo boss di Zungri oggi al 41bis, che Leone (oggi pure lui al carcere duro) voleva uccidere e che proprio con Giuseppe Soriano aveva un debito. Si parla delle trame che avrebbero visto protagonisti Peppone, ma anche lo zio Luigi Mancuso. Si parla dell’interesse che - in ragione di un grosso affare di droga - anche le cosche reggine avevano per eliminare il capo bastone di Zungri, ma ciò avrebbe esposto il suo amico Giuseppe Soriano: «I Reggitani non vanno a toccarlo, per farlo loro materialmente, invece di farlo loro, mandano a Peppe (Giuseppe Soriano, ndr) tuo nipote. Io gli ho detto a Peppe “Non andare per questi cazzi di soldi perché è capace che ti butta quattro-cinque botte…». Emanuele l’astuto, il diffidente, il previdente.
Emanuele, un Mancuso
La parte finale della conversazione, infine, riguarda gli attriti che, in ragione dell’atteggiamento assunto da alcuni suoi nipoti, lo stesso Accorinti avrebbe avuto con la famiglia stessa di Emanuele. Non tollerava, Emanuele, «la scostumatezza che ha avuto con mia madre e con mia sorella. Ad uno l’ho preso a falcettate davanti a Cichello e ad un altro davanti lui con una pala di ferro l’ho distrutto». Emanuele il violento, ma anche quello che teneva al rispetto della sua famiglia e, in particolare, delle sue donne. Una di queste, sua madre appunto, in seguito avrebbe perfino tentato di prostrarlo al punto di farlo recedere dalla collaborazione con la giustizia e finì arrestata. Ma Emanuele, oggi come allora, aveva forte il senso della famiglia, ma anche la consapevolezza di chi fosse suo padre e di quanto pesasse il suo nome: «Quando esce mio padre voglio vedere cosa gli dice, ti puoi permettere di offendere mia madre…». Emanuele, il Mancuso.