Nel 1985 gli spararono 7 volte e infierirono sul cadavere mentre tornava dalla fidanzata che avrebbe dovuto sposare un mese dopo. Nuove indagini della Dda di Reggio Calabria e quattro indagati potrebbero condurre finalmente ai responsabili dell’omicidio
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Sono passati quasi 40 anni dall’omicidio di Carmine Tripodi, il brigadiere dei carabinieri trucidato nel febbraio del 1985 con sette colpi di lupara appena fuori da San Luca. Quaranta anni di buco che potrebbero essere colmati dalla nuova inchiesta della distrettuale antimafia di Reggio che, come anticipato da Gazzetta del Sud, ha iscritto 4 persone nel registro degli indagati. Gli inquirenti hanno disposto ai Ris una serie di esami irripetibili per confrontare il dna dei sospettati a quello che potrebbe trovarsi nei campioni rinvenuti e repertati sul luogo dell’agguato.
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Su quei pezzi di passato archiviati nel Tribunale di Locri ci sono infatti anche le tracce di sangue di uno degli assalitori, ferito dallo stesso Tripodi durante il conflitto a fuoco che gli è costato la vita. E sono quei frammenti, analizzati con tecniche neanche ipotizzabili al tempo, che potrebbero raccontare ora la verità sull’agguato all’investigatore dell’arma al tempo a capo della caserma di San Luca. Tripodi era un investigatore di primo livello, carabiniere quadrato e capace di confrontarsi con la gente d’Aspromonte. Uno dei pochi che erano riusciti ad intuire le dinamiche prese dalla ‘ndrangheta che da lì a qualche anno avrebbe fatto il grande salto, passando dai rapimenti di persone al traffico di cocaina. Uno che i prigionieri della stagione dei sequestri, li andava a cercare battendo palmo a palmo la montagna.
Arrivato in Calabria nel 1980 direttamente dal corso sottoufficiali dei carabinieri, Carmine Tripodi, poco più che maggiorenne, finisce dritto al nucleo operativo di Bianco, una delle capitali dei sequestri di persona. La squadriglia di Motticella a Bruzzano Zeffirio nei primi anni, poi il trasferimento a San Luca dove, nel 1982, diventa comandante di stazione. Lo sarà per poco meno di tre anni.
Nei primi anni 80, la macchina dei sequestri di persona funziona a pieno regime su tutto il territorio nazionale. La Lombardia, il Piemonte, il Veneto. Ma anche la Locride: Bovalino, Locri, Grotteria, Stilo. Gli obiettivi dell’anonima sequestri calabrese sono ovunque: anziani industriali del nord o bambini figli di famiglie agiate del territorio. La risposta dello Stato in quel periodo, è affidata unicamente all’intuito dei suoi pochi investigatori sul campo. Ma tra mille difficoltà e nonostante la scarsità di uomini, qualcosa in quegli anni comincia a cambiare. Il sequestro del “re delle pellicce” Giuliano Ravizza – rapito a Pavia e trasportato in Calabria per la detenzione – non resta impunito ed è proprio Tripodi a guidare le indagini che porteranno all’arresto degli autori. Ed è sempre il brigadiere campano ad accompagnare l’ingegnere Carlo De Feo, di ritorno sui luoghi dove era stato rinchiuso per oltre un anno. Rapito nel 1983 a Napoli, De Feo era stato rilasciato a Platì dopo il pagamento di un riscatto di 4,4 miliardi di lire. Un rapimento che fece molto rumore e che portò, a pagamento avvenuto, ad una quarantina di arresti tra le famiglie di ‘ndrangheta.
La sera del 6 febbraio del ’85, Carmine Tripodi ha appena lasciato la caserma di San Luca. Sono passate da poco le nove e, a bordo della sua auto, si sta dirigendo verso Bianco. Ad aspettarlo giù in paese ci sono la sua fidanzata calabrese e i suoi genitori, arrivati dalla Campania da qualche giorno per organizzare il matrimonio che si sarebbe dovuto celebrare a marzo. Un tragitto di una ventina di minuti, forse qualcosa di più, una strada fatta mille altre volte. Tripodi non si aspetta di essere nel mirino dei clan.
Lo aspettano dietro una curva a gomito. Sono almeno tre, stabiliranno le indagini. Sparano sette volte con le lupare e, forse perché il militare lottando era riuscito ad esplodere sei colpi e a ferire uno dei suoi killer, infieriscono sul cadavere. Nessuno ha pagato per quell’omicidio, almeno finora. Nelle settimana successive all’agguato furono fermati tre giovani di San Luca, uno all’epoca dei fatti ancora minorenne: sospettati di avere fatto parte del commando di fuoco che ha portato a termine la sentenza, furono assolti negli anni successivi da tutte le accuse. Stesso sorte toccata ai presunti fiancheggiatori del gruppo.
Ora le nuove indagini.