Pino Scriva, 75 anni, collaboratore di giustizia fin dal 1983. Segnò l’alba del pentitismo in Calabria. Disse: «Se si chiama ‘ndrangheta è perché l’ho detto io» (ASCOLTA L'AUDIO)
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Pino Scriva non deporrà al maxiprocesso Rinascita Scott: lo storico primo pentito della ‘ndrangheta è morto. I pubblici ministeri hanno prodotto al collegio giudicante il certificato che ne attesta il decesso (avvenuto per cause ed in data non precisati). Agli atti del dibattimento, in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme, saranno quindi acquisiti i verbali già assorbiti nel colossale compendio delle indagini preliminari. La sua ultima deposizione risale al 2 luglio del 2018, quando al processo ’Ndrangheta stragista, a Reggio Calabria, sul patto scellerato tra Cosa nostra e le famiglie calabresi per esportare il terrorismo mafioso dalla Sicilia nel Continente, pronunciò una frase attraverso cui offriva all’aula il senso che aveva di sé: «Se si chiama ’ndrangheta – disse, rispondendo al procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – è perché l’ho detto io».
La dote più elevata
Scriva, in fondo, non aveva tutti i torti. Qualche settimana prima, il 21 giugno, era stato messo invece sotto torchio proprio dal pool di Nicola Gratteri, che stava puntellando l’indagine che avrebbe portato al “maxi” contro la ‘ndrangheta. Si autodefiniva un boss perché aveva ricevuto il «Medaglione o Associazione, che sono la stessa cosa. Fino al 1982 – precisò – queste erano le doti più alte». Le doti, i gradi, dell’onorata società calabra. «I soggetti con questa dote fanno parte dell’associazione unica per tutte la Calabria… Confermo il fatto che l’organizzazione della ‘ndrangheta è diventata unitaria a partire dal 1981».
Correva il 1983
Rosarnese, nato il 2 aprile 1946, figlio di don Ciccio, uno dei padrini della vecchissima guardia, Pino Scriva fu il primo. E se non può chiamarsi il Buscetta calabrese (che collaborò qualche tempo dopo), poco ci manca. Si dissociò e saltò il fosso quando il pentitismo, nelle terre delle mafie, era un miraggio: correva il 27 ottobre del 1983 e al giudice istruttore iniziò a raccontare dell’omicidio di Salvatore Monteleone, consumato da Giuseppe Avignone, con la complicità mai confermata in sede giudiziaria dei Mancuso di Limbadi, nell’ambito della faida che insanguinava Taurianova. «Io vengo dai morti», disse presentandosi per la prima volta al giudice.
Re delle evasioni e non solo
Il principale teste dell’accusa al maxiprocesso Mafia delle tre province, il re delle evasioni, implicato e poi scagionato nelle indagini sull’assassinio del giudice Francesco Ferlaino. Scriva rese dichiarazioni, anche controverse, su alcuni dei fatti di sangue più agghiaccianti della storia del crimine organizzato calabrese, come sulla Strage di Razzà, quando riferì della presenza, al summit interrotto dai carabinieri che furono uccisi, perfino di un uomo di governo, col quale infine si scusò per la calunnia attraverso una lettera inviata a Gazzetta del Sud.
Il vertice della ’ndrangheta
«L’Associazione – spiegò ai pm di Catanzaro nel 2018 – era il vertice della ’ndrangheta che interveniva e prendeva decisioni, quando si discuteva di questioni che riguardavano tutti gli appartenenti di tutti i paesi o si dovevano fare omicidi importanti. Ad esempio come quando è stato commesso l’omicidio del giudice Ferlaino. Le riunioni avvenivano durante la festa di Polsi che consentiva di farle senza essere scoperti, approfittando della confusione creata dall’afflusso dei pellegrini. Ricordo che ai tempi si raggiungeva il Santuario a piedi e ognuno di noi, che ormai ci conoscevamo tutti, era armato».
Le parole sul Supremo
Utile, Scriva, a corroborare il compendio indiziario a carico di Luigi Mancuso, il Supremo, il Crimine, il capo dei capi della ‘ndrangheta vibonese portato alla sbarra nel maxiprocesso in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme: «Ricordo che nella ‘ndrangheta contava di più Luigi Mancuso, per i suoi rapporti con i Piromalli, per i quali aveva fatto molti omicidi. In quegli anni Peppe Piromalli ha deciso la morte di molte persone. Luigi Mancuso aveva rapporti più stretti specialmente con Peppe Piromalli». Pino Scriva ebbe sempre una particolare verve narrativa nel deporre davanti all’autorità giudiziaria: «Quando faccio il paragone con l’arma dei Carabinieri nei verbali che ho reso in precedenza, lo faccio per spiegare che la ‘ndrangheta funziona allo stesso modo dell’Arma dei Carabinieri. A volte capitava di fare picciotto un soggetto di scarso valore per fare in modo che i carabinieri lo sapessero, così da nascondere, invece, l’identità degli ’ndranghetisti veramente importanti».
Una «lucida coerenza»
Intelligente, scaltro, arguto. La sua collaborazione, soprattutto negli anni ’80, fu formidabile. E sono le parole della Corte d’Assise di Palmi al processo Mafia delle tre province a segnarne il profilo. Era il 26 febbraio 1994, il presidente Giacomo Foti, nei motivi della sentenza, ne sottolineava la «fluidità complessiva del racconto, perfettamente compatibile con il contesto spazio temporale in cui i fatti narrati risultano riferiti, sia per la lucidità delle argomentazioni costantemente opposte a tutte le osservazioni, le puntualizzazioni, le proteste, anche le aggressioni verbali che talvolta hanno caratterizzato, nel corso di lunghi e spesso estenuanti interrogatori ed accesi confronti, lo scontro dibattimentale con gli imputati. Nulla è valso a farlo cadere in contraddizione sui punti fondamentali del racconto, a spezzarne la lucida coerenza dei riferimenti; stimolato, anzi, dai suoi contradditori, egli ha fornito ulteriori occasioni di positive verifiche». Insomma, Scriva o smentiva se stesso o era impossibile da smentire.