Il giorno dopo la richiesta di pena, prosegue la maratona del maxiprocesso Rinascita Scott, con l’avvio delle arringhe difensive. Il primo a prendere la parola, l’avvocato Paride Scinica, difensore di fiducia di Giuseppe Mancuso (figlio di Giovanni Mancuso, secondo gli inquirenti una sorta di ministro delle finanze dell’omonimo clan di Limbadi, non imputato), per il quale il pool di Nicola Gratteri ha chiesto una condanna a 20 anni di reclusione. L’arringa si è aperta con un gesto di cavalleria processuale da parte del penalista (che assiste anche il presunto capo del Crimine di Vibo Valentia, Luigi Mancuso, la cui posizione è stata stralciata dal maxiprocesso per confluire ed essere definita nel parallelo procedimento Petrolmafie), il quale ha espresso un attestato di apprezzamento per l’equilibrio, l’impegno ed l’ammirevole contegno mantenuto dal collegio giudicante presieduto dal giudice Brigida Cavasino e completato dalle colleghe Claudia Caputo e Germana Radice.

Un attestato che segue quello, altrettanto significativo, espresso dall’avvocato Giovanna Fronte, difensore di più parti civili, alle cui conclusioni, pronunciate a margine delle richieste di pena, hanno assistito fino al termine tutti i componenti del pool dell’accusa. «Tre giudici, tre donne esemplari», ha ribadito l’avvocato Fronte, evidenziandone la costanza e l’impegno nel sostenere udienze fiume, fino a cinque settimanali, talvolta durate ben oltre dodici ore. Parole che a loro volta hanno fatto eco a quelle dello stesso procuratore Gratteri che proprio al collegio giudicante ha riconosciuto il merito di aver portato alla discussione in soli due anni e mezzo «un processo contro il quale in troppi facevano il tifo affinché non si celebrasse».

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Tornando alle arringhe difensive, l’avvocato Scinica, prima di entrare nel merito della posizione di Giuseppe Mancuso, ha spiegato come, secondo la sua prospettiva, «non esiste il Crimine di Vibo Valentia», ovvero di un livello superiore alle ‘ndrine e ai locali di ‘ndrangheta, che secondo l’ufficio di Procura sarebbe stato guidato da Luigi Mancuso e, prima della sua scarcerazione, dal nipote Pantaleone detto Scarpuni. «Neppure nel procedimento Crimine v’è traccia di questo», spiega il penalista, che ha tentato di destrutturare la ricostruzione offerta in aula, sia in sede di esame che di controesame, dal colonnello dei carabinieri Valerio Palmieri, teste principale, sul punto, per la pubblica accusa. Ha poi citato tutta una serie di precedenti giudiziari che «smentiscono l’assunto della pubblica accusa, si tratta di pronunce definitive e non impugnate». Ha quindi rilevato le incongruenze tra le dichiarazioni dei collaboratori storici e quelli più recenti.

Quanto alla posizione del suo assistito Giuseppe Mancuso, accusato di associazione mafiosa e di due ipotesi di estorsione, l’avvocato Scinica ho sostenuto come il dibattimento non abbia offerto alcuna prova sulla sua partecipazione ad un sodalizio mafioso del quale «non v’è prova», né del suo ruolo come autista dello zio Luigi che, invece, «non avrebbe neppure mai incontrato». Ha altresì escluso, l’avvocato Scinica, un ruolo del suo assistito nelle condotte estorsive contestate: nella prima vicenda sarebbe intervenuto semplicemente per ricomporre una controversia tra altre due persone nella compravendita di una partita di friselle, nella seconda, connessa invece ad una vicenda di droga, avrebbe solo prestato il proprio telefono al cugino Emanuele Mancuso (oggi collaboratore di giustizia), che – secondo il difensore – avrebbe compiuto quindi in solitudine l’estorsione.

L’udienza proseguirà con l’arringa dell’avvocato Ignazio Di Renzo, difensore dell’imputato Antonino Lo Bianco, uno dei pochi per i quali la pubblica accusa ha richiesto l’assoluzione, essendo la contestazione originariamente formulata coperta dalla prescrizione.