La commemorazione

A Paola una cerimonia per ricordare Tonino Maiorano, l’operaio scambiato per un boss ucciso dalla ‘ndrangheta vent’anni fa

VIDEO | All'iniziativa hanno preso parte istituzioni e rappresentanti delle forze dell'ordine. Presente anche don Ciotti, il fondatore di “Libera” ha incitato i presenti ad assumersi la responsabilità di essere cittadini: «Dobbiamo essere una spina al fianco, per il bene di tutti»

 

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di Francesco Frangella
22 luglio 2024
22:00

Sono già passati vent’anni da quel tragico 21 luglio 2004, quando killer spietati assassinarono - scambiandolo per un boss della criminalità locale - l’operaio idraulico forestale Tonino Maiorano, marito di Aurora e padre di quelli che all’epoca erano soltanto due bambini, Chiara e Samuele, rimasti orfani per un grottesco errore dei criminali, convinti di essere entrati in azione contro un capomafia inviso alla consorteria dalla quale erano stati ingaggiati. Quattro lustri di dolore e sgomento, che Paola rinnova ogni anno e che proprio nel 2024, a febbraio, sono culminati nella condanna a 30 anni di altri due dei componenti del clan che aveva organizzato il raid, un processo lungo e non privo di colpi di scena, che comunque ha portato gli inquirenti a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e le responsabilità di quanti presero parte al piano omicida.

Ad aprire gli interventi, che hanno preceduto la piantumazione di un ulivo e l’inaugurazione di una stele sotto la targa marmorea affissa sul muro esterno dello stadio Tarsitano, che ne ricorda il sacrificio, il presidente del consiglio comunale Mattia Marzullo, al quale è seguito l’intervento commosso del consigliere comunale Renato Vilardi, che ha preso la parola in quanto collega di Tonino Maiorano, accanto a lui in quella mattina del 21 luglio 2004. Emozionato anche il consigliere provinciale Alfonso D’Arienzo, cui è seguito l’intervento di Luciana De Francesco, venuta in rappresentanza del presidente Roberto Occhiuto, che ha poi ceduto la parola al sindaco Giovanni Politano, il quale ha ripercorso il sentimento avvertito in città al diffondersi della notizia riguardo l’omicidio. Dritto al punto e chiamando persone e cose con il proprio nome, il magistrato Eugenio Facciolla, in forza alla Procura di Paola all’epoca dei fatti, ha ripercorso per filo e per segno tutta la sequela di eventi precedenti e successivi all’omicidio, scandendo ogni cognome e nome con il tono proprio della sentenza e biasimando l’atteggiamento di quanti, sulla lotta alla mafia e sulle commemorazioni, «fanno solo passerelle».


«È importante che ci sia la memoria - ha dichiarato il giudice nel corso dell’intervista rilasciata ai nostri microfoni - perché questo è un Paese che non ha memoria. Quindi dimentica i servitori dello Stato, anzi a volte se ne ricorda soltanto per lustrare le divise, lustrare le toghe e soprattutto costruire le proprie carriere. E questo non va bene. Lo Stato e la società civile la componiamo noi e noi dobbiamo reagire».

«Concludo con un piccolo passaggio della storia di Maiorano - ha specificato infine Eugenio Facciolla - La mattina dell’omicidio, quando arrivai sul posto, la prima cosa che tutti i suoi colleghi mi dissero, è che avevano paura di venire al lavoro al mattino, qui sul posto dove oggi ci troviamo, perché era il posto dove Serpa Giuliano (il boss scampato all’agguato, ndr), non solo faceva finta di lavorare, ma riceveva i suoi sodali, indicati nominativamente in tutte persone successivamente al centro di operazioni come “Tela del Ragno” o la stessa vicenda Maiorano. Questo da il senso di uno Stato che non ha funzionato, un’istituzione che non ha funzionato: il Consorzio di Bonifica sapeva chi era Serpa Giuliano, ma sapeva anche chi era Ditto Gennaro, che è il mandante dell’omicidio (in cui a morire è stato però Tonino Maiorano, ndr) tra gli altri omicidi, organizzati dal carcere di Catanzaro. Ditto Gennaro percepiva lo stipendio, da detenuto, dal Consorzio di Bonifica. Questo per far capire davvero, purtroppo, il livello a cui si era giunti e mi auguro che oggi ci sia maggiore attenzione da parte degli organismi preposti».

Prima della conclusione affidata a don Luigi Ciotti, fondatore dell’associazione “Libera, Associazione, Nomi, Numeri contro le mafie”, il picco emozionale della mattinata è stato raggiunto con i discorsi di Aurora Cilento e Chiara Maiorano, moglie di Tonino Maiorano la prima e figlia primogenita la seconda. Con compostezza e parole misurate, cadenzate dal ritmo proprio a chi ha vissuto per intero l’impatto della tragedia, le due donne (di cui una appena bambina all’epoca dei fatti) hanno allargato lo spettro delle responsabilità attorno alla morte di un marito e di un padre, ucciso mentre si trovava al posto giusto (sul luogo di lavoro), al momento giusto (in orario di servizio). «È la mafia ad essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato», ha tuonato la giovane Chiara.

Tonino Maiorano vittima innocente della mafia, caduto nel corso di un periodo in cui Paola sembrava essere ripiombata ai tempi del coprifuoco dovuto alla guerra tra clan, ma rialzatosi presto nella mente e nel cuore dei suoi concittadini, che insieme alla famiglia, non hanno mai smesso di chiedere verità e giustizia, favorendo un percorso di rinascita che - nel nome di un simbolo tanto puro - contribuì a smorzare la ferocia di un fenomeno che comunque è tutt’altro che debellato.

Di questo è certo Don Luigi Ciotti: «Il Procuratore nazionale antimafia parla di rapporti “diffusi”, “disincantati” e “pragmatici” tra la mafia e la politica di oggi. Questo è un atto di verità che ci deve far saltare tutti dalla sedia, prendere coscienza veramente che c’è una normalizzazione, nella testa di troppa gente, del problema mafioso. È “una delle tante cose”. Così la droga, che è uno dei tanti pilastri dei suoi guadagni: “una delle tante cose”. Così le ecomafie, le agromafie, il gioco d’azzardo: “una delle tante cose” dei poteri forti. Poteri criminali, che con le loro connessioni, con altri poteri, economici, quelli inquinati, arrivano a segmenti della politica. E allora tocca noi essere cittadini veri, assumerci la nostra parte di responsabilità e cacciare via la malattia della delega, che ci fa pensare che tocchi agli altri fare. Certo, magistratura, forze dell’ordine, alcune istituzioni fanno la loro parte, ma noi dobbiamo essere dei cittadini non a intermittenza, a seconda dei momenti e delle emozioni, ma cittadini veri, della continuità, della condivisione, della corresponsabilità. Disposti a collaborare con le istituzioni per le cose giuste, sennò dobbiamo essere una spina al fianco, per il bene di tutti».

 

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