VIDEO | È arrivata la prima condanna a 20 anni in abbreviato per uno dei presunti trafficanti di esseri umani. Altri tre sono alla sbarra nel tribunale di Crotone. E in aula risuonano le testimonianze di chi è giunto per primo sulla spiaggia: «Non c’era nessuno, i soccorsi sono arrivati dopo mezz’ora». Il filmato della tragedia
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L’attesa nelle safe house e il trasferimento verso il mare stipati sui pulmini; il cambio di battello e l’odissea lungo la rotta turca fino allo schianto sulla secca di Steccato di Cutro. E poi i morti sputati via dall’acqua quando ancora è buio pesto, con le urla dei sopravvissuti che si accavallano a quelle dei primi soccorritori. Il processo agli scafisti della “Summer Love”, sta ricostruendo in aula la parte finale dell’ennesimo viaggio della speranza, ripercorrendo i giorni e le ore precedenti alla più grave tragedia migrante della storia della Calabria.
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Gli imputati
Alla sbarra, davanti al Tribunale di Crotone, siedono in tre, imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio colposo e morte come conseguenza del reato di favoreggiamento all’immigrazione: Sami Fuat, cinquantenne cittadino turco, e Ishaq Hassan e Khalid Arslan poco più che ventenni provenienti dal Pakistan, sono accusati di avere pilotato quel caicco fracido e carico all’inverosimile di uomini, donne e bambini fino allo schianto, quando il peggio sembrava ormai alle spalle.
Il quarto scafista
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Il quarto scafista, Gun Ufuk, cittadino turco, è già stato condannato in primo grado, in abbreviato, a 20 anni di carcere e a una multa di 3 milioni di euro. In aula, Ufuk, aveva provato a giustificare la sua presenza sul barcone: «Ero solo il meccanico della barca e ho barattato il pagamento del viaggio con il compito di macchinista per riparare il motore, non ho mai guidato la barca. Ero stato arrestato – si è giustificato ancora in aula l’imputato – perché considerato parte del movimento che aveva portato al tentato golpe nel 2016. Per chi è considerato un golpista è impossibile vivere in Turchia. Per questo ho deciso di partire, ma non avevo i soldi e ho accettato di fare il meccanico su quella barca».
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Il processo in ordinario
È stata la lettura delle chat presenti sui telefonini degli imputati (oltre naturalmente alle testimonianze dei sopravvissuti) a consentire agli investigatori di risalire ruoli e compiti svolti dai tre presunti scafisti prima e durante la traversata. Chat che parlano di conti da sbloccare, di “game” (la parola utilizzata dai trafficanti per intendere il viaggio stesso) in corso, e di trasferimenti via terra dai dormitori nei dintorni di Istambul fino alla spiaggia scelta per la partenza. Chat attive fino a qualche ora prima del naufragio. Come nel caso di Arslan, che poco dopo la mezzanotte del 26 febbraio, continua a sollecitare alla famiglia di uno dei migranti imbarcati lo sblocco del pagamento del biglietto. Circa 8mila euro che, al momento della partenza, per un problema tecnico, non erano stati versati.
I primi soccorsi
E se le chat degli scafisti ripercorrono le ore precedenti alla tragedia, è il racconto dei primi soccorritori arrivati sulla spiaggetta di Steccato pochi minuti dopo lo schianto del caicco a descrivere l’orrore di quella notte costata 94 vittime. Sono i pescatori del posto a raggiungere il luogo del naufragio per primi: «Quando siamo arrivati sulla spiaggia abbiamo visto i corpi e sentito le urla delle persone che chiedevano aiuto – racconta in aula Ivan Paone giovane di origine bielorussa da anni trapiantato nel crotonese – non so quante ne abbiamo aiutate, erano tante. All’inizio eravamo solo noi, i soccorsi sono arrivati dopo quasi mezz’ora. Poi quando sono arrivate le ambulanze abbiamo aiutato a trasportare i feriti».
Un racconto supportato da tre video, acquisiti a processo, che il giovane ha girato con il proprio telefonino durante quelle prime concitate fasi. Video tremendi, che raccontano meglio di mille parole la drammaticità di quei minuti interminabili, con i cadaveri dei migranti sbattuti sulla battigia dalla forza del mare e i sopravvissuti che annaspano cercando di tirarsi fuori. «Ad un certo punto ero molto stanco e completamente bagnato – racconta Ilied Gabriel Curca, cittadino rumeno da anni in città ed eroe per caso sulla spiaggia di Cutro – avevo paura che il mare tirasse dentro anche me. Mi sono fermato per riprendere fiato e uno dei sopravvissuti mi ha aiutato a tirare fuori dall’acqua una persona che era ancora viva. Sono cose che non succedono tutti i giorni».
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L’indagine parallela
E se il processo ai presunti scafisti procede spedito in aula, la Procura di Crotone è sul punto di chiudere l’altro filone dell’indagine sul naufragio, quella relativa al mancato soccorso in mare da parte di Guardia costiera e Guardia di finanza, che da diverse ore erano a conoscenza della presenza di quel battello scalcinato in mare grazie alla segnalazione dell’areo Eagle 1 di Frontex. «Quando ho chiamato la Guardia costiera per avvisarla della presenza di una barca in pericolo – aveva raccontato in aula il soccorritore Ivan Paone – mi hanno detto che sapevano già dell’imbarcazione, ma sul posto, in quel momento, non c’era nessuno. Né loro e neppure i carabinieri». Sono in sei, per ora, tra ufficiali e sottoufficiali, ad essere iscritti nel registro degli indagati con l’ipotesi di omissione di soccorso e disastro colposo. Sarà il processo a stabilire le eventuali responsabilità degli indagati e a ricostruire quei “buchi” nella catena dei soccorsi che hanno tenuto quella notte in porto gli inaffondabili battelli delle forze dell’ordine. Battelli che nei mesi e negli anni precedenti al naufragio della Summer Love, a Crotone come a Roccella (terminali principali della rotta turca) erano usciti ben oltre i limiti delle acque territoriali italiane per tirare in salvo i migranti.
L’indagine della Dda
Che gli scafisti siano solo la parte più esposta delle organizzazioni criminali che si occupano di organizzare i trasporti dei migranti dalla Turchia fino in Calabria è un fatto accertato da numerose operazioni giudiziarie. A conferma di questo dato, durante la deposizione del sostituto commissario Carlo D’angelo nel procedimento in corso con rito ordinario, è venuta fuori la notizia di un’ulteriore indagine della distrettuale antimafia di Catanzaro che sta indagando per fare luce sulla ramificata rete attraverso cui le organizzazioni criminali “raccattano” in Pakistan come in Afghanistan, in Siria e nel resto del martoriato medio oriente, i propri “clienti”. Un’organizzazione capace di ottimizzare tutte le fasi del viaggio. Dal furto dei velieri monoalberi che serviranno alla traversata, alla gestione dei migranti nelle safe house, fino alla riscossione dei biglietti (tra i 6 e gli 8 mila euro a persona).