La rivolta pilotata da mafiosi, massoni deviati e terroristi neri. Il blitz nel meeting mafioso in Aspromonte del 1969 scaturito dalle delazioni che i De Stefano avrebbero indirizzato al questore Santillo: loro sfuggirono, i vertici della mala tradizionale furono arrestati
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Gotha rilegge e, in parte, riscrive anche la storia della ‘ndrangheta: riconosce l’esistenza della sua componente «segreta o riservata», ne punisce le figure apicali che avrebbero strumentalmente utilizzato i «molteplici schermi personali, professionali, istituzionali e massonici» per dettare strategie e individuare i propri referenti nei gangli vitali della società,così accrescendo il potere dell’organizzazione; fotografa l’attualità ma scava anche nel passato. In breve, quella motivata dal presidente del Tribunale di Reggio Calabria Silvia Capone, depositata il 31 luglio 2023, a due anni dalla lettura del dispositivo, è una sentenza che - nei fatti - costituisce una pietra miliare nella storia giudiziaria italiana.
Non solo il popolo
Produce un esercizio analitico profondo, efficace e persuasivo, che incrocia tutte le emergenze dibattimentali, dalle origini della ‘ndrangheta moderna, partendo dalla figura chiave di Paolo Romeo, l’ex parlamentare ed imputato cardine del processo che già «nei moti di Reggio Calabria degli anni ’70 fu di importante rilievo, in quanto era uno dei personaggi di spicco con il ruolo di direzione della rivolta, e ciò a sostegno di Natino Aloi e Fefé Zerbi - scrive il giudice Capone - utilizzando la posizione acquisita sia in ambito politico che in ambito ‘ndranghetista». In ciò, Gotha riflette quanto già sancito da altre storiche sentenze, Olimpia su tutte: i moti, dunque, rivolta sì del popolo contro la designazione di Catanzaro capoluogo di Regione, ma pilotata dalle forze oscure della ‘ndrangheta, della massoneria deviata, della destra eversiva. Il presidente Capone ed il suo collegio, vanno però oltre, contestualizzando quella fase storica attraverso altre emergenze: le testimonianze dei pentiti e degli ufficiali di polizia giudiziaria, l’incrocio con altre sentenze.
L’uomo che sussurrava
Giunge a riscrivere e, appunto, a rileggere il significato di eventi cruciali quale il summit di Montalto ed il blitz della Polizia che lo interruppe. Determinanti le dichiarazioni di Carmelo Serpa. Nativo di Archi, allevato dai De Stefano e dai Tegano, ‘ndranghetista a tutto tondo pur senza essere formalmente battezzato, collaboratore sin dal 1996. «Nel 1969 – si legge nella sentenza Gotha – la riunione si tenne ad ottobre e fu diversa rispetto a quella degli altri anni, in quanto Paolo De Stefano aveva chiesto di farvi partecipare un comparto di personaggi politici…». Serpa, all’epoca, aveva appena 18 anni ed era già alla corte dei De Stefano in ragione dell’amicizia che Giorgio (il fratello di Paolo che sarà ucciso il 7 settembre 1977 a Santo Stefano d’Aspromonte) aveva con suo zio Stefano Malara, il quale, sotto le mentite spoglie di un autotrasportatore, canalizzava informazioni alle forze di polizia e ai funzionari dello Stato, tra questi il questore Emilio Santillo, ovvero il superpoliziotto che poi guidò il blitz di Montalto.
Il summit
Serpa, il giorno del summit, era stato incaricato, assieme ad un altro folto gruppo di picciotti, di fungere da sentinella e così dare l’allarme in caso di presenze indesiderate: tutti consegnarono documenti e orologi e, ad ognuno, fu data una pistola. Dalla sua visuale, un’altura a poche decine di metri dal luogo del summit, poteva riconoscere i diversi presenti: Giuseppe Zappia, a presiedere la riunione, Domenico e Pasquale Tegano, Vincenzo Saraceno, Giovanni De Stefano, così come esponenti dei clan Alvaro di Sinopoli, Molè di Gioia Tauro, Mammoliti di Oppido Mamertina, Arena di Isola Capo Rizzuto «per un numero complessivo (comprese le sentinelle) di circa 250 persone».
Santisti e delazioni
Zappia spiegava il progetto di Paolo De Stefano e la ragione della presenza «dei politici», tutti di destra, nella convergenza degli interessi, benedetti dall’introduzione della dote della «Santa», che consentiva agli ‘ndranghetisti d’élite di interloquire al di fuori della stessa organizzazione: «Stefano Delle Chiaie, Pierluigi Concutelli (che però in quel periodo, sarà accertato, era detenuto, ndr), Sandro Saccucci, Fefé Zerbi, Junio Valerio Borghese». Poi, ad un certo punto, il dottor Santillo diede l’ordine e scattò il blitz. Una «operazione ben eseguita – si legge nella sentenza Gotha – organizzata con una precisione che lasciava intendere che non fosse casuale ma preceduta da informazioni precise e puntuali». Quelle, in pratica, canalizzate da Malara, lo zio di Serpa. «Ma nonostante l’intervento della Polizia sia stato capillare, non certamente improvvisato ma frutto di una programmazione dettagliata […], Paolo De Stefano non veniva tratto in arresto né in quel momento né successivamente». E più avanti: «È evidente che il successo dell’operazione, che aveva consentito di rilevare anche la presenza a Montalto di politici della destra eversiva, aveva accreditato il Malara quale fonte confidenziale preziosa, al punto di essere messo in contatto direttamente con personaggi di Roma, non ben definiti, ma che ragionevolmente si può ritenere appartenessero ai settori dei servizi di sicurezza».
La fine della ‘ndrangheta tradizionale
I De Stefano, è la sintesi che si ricava dal dibattimento, non potevano non sapere che la retata che fermò il summit di Montalto fosse scaturita dalle informazioni rese da Malara al questore Santillo, ma nonostante ciò «non hanno mai assunto iniziative repressive nei suoi confronti che certo, ove il Malara avesse agito da solo, avrebbero certamente comportato». L’assunto, dunque, vorrebbe che i De Stefano possano aver in qualche modo pilotato il blitz, sfuggendovi al momento giusto, per far arrestare, così eliminandoli silenziosamente, i boss riottosi alle loro strategie politiche. Scrive il giudice Capone: «La ragione è da ricercare negli accadimenti. L’operazione consentiva la cattura dei vertici della ‘ndrangheta tradizionale, quella arcaica e rozza, che ancora non aveva maturato un modello diverso di operatività criminale, quella che vedeva nelle forze dell’ordine un nemico da affrontare esclusivamente con lo scontro armato e non già con i mezzi della collusione».