Li ritenevano entrambi inaffidabili, seppur per motivi diversi: uno perché sospettato di essere «confidente dei carabinieri», l’altro per i suoi problemi «con la droga». Andrea Sacchetti e Salvatore Di Cicco muoiono per queste ragioni, perché il clan dei cassanesi in cui il primo desiderava entrare e del quale l’altro faceva già parte, nel giro di pochi mesi ritiene opportuno sbarazzarsi di loro. Correva l’anno 2001 e ventidue anni dopo la Dda ritiene di aver fatto luce su quei due omicidi irrisolti ai quali corrispondono altrettanti casi di lupara bianca. Determinanti, ai fini degli arresti eseguiti nelle scorse ore, le dichiarazioni di due collaboratori di giustizia: Nicola Acri e Ciro Nigro.

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Ambedue i delitti maturano nel seno del gruppo criminale di Sibari, una locale di ‘ndrangheta a composizione mista zingari-italiani che, nel corso degli anni, ha trasferito la propria capitale da Corigliano a Cassano. In quel 2001, però, sulla scena si impone un giovane boss originario della vicina Rossano: è Nicola Acri alias “Occhi di ghiaccio”. A lui, in quei giorni, guarda con ammirazione il ventinovenne Andrea Sacchetti, spacciatore autonomo e tossicodipendente, che sogna di entrare a far parte dell’organizzazione. Purtroppo per lui, un incrocio di eventi sfavorevoli lo renderà inviso al suo stesso idolo.

Diventato collaboratore di giustizia, infatti, “Occhi di ghiaccio” rievoca il principio di faida scoppiata allora all’interno del suo gruppo tra gli alleati Morfò e De Luca. Sacchetti, vicino alle posizioni di quest’ultimo, è guardato con sospetto dal primo, timoroso di subire qualche attentato. In più, il ventinovenne non si limita a spacciare la droga, ma ne fa anche un uso personale. Due circostanze poco rassicuranti per il boss che, a quel punto, decide di risolvere il problema a modo suo. Il 6 febbraio, infatti, sfrutta il suo ascendente su di lui e lo convoca presso il casello ferroviario di Rossano. È una trappola, ma questo Sacchetti non lo sa.

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L’antefatto sembra mutuato dal film “Quei bravi ragazzi”. Acri gli ha promesso di farlo entrare a pieno titolo nel giro che conta e così mentre si reca all’appuntamento, l’uomo vede l’obiettivo di vita a portata di mano: quel meeting coincide con il suo sospirato ingresso nell’onorata società. Purtroppo per lui, coltiva solo un’illusione. Dal casello i due si spostano in un’azienda agricola vicina dove si trovano Rocco Azzaro ed Eduardo Pepe. È quest’ultimo, secondo Acri, a spezzare i sogni del giovane spacciatore che non ha il tempo di accorgersi dell’inganno. O forse sì, proprio come nel film di Scorsese. Fatto sta che muore quel giorno, ucciso da tre proiettili calibro 9 esplosi da un’arma munita di silenziatore.  

Le modalità della sua esecuzione sono note agli investigatori già dal 2015. In quel periodo, infatti, dal carcere milanese di Opera, un vecchio affiliato del clan sibarita manifesta la volontà di collaborare con la giustizia. Si chiama Ciro Nigro e sta scontando l’ergastolo per l’omicidio del papà di un pentito, Giorgio Cimino. Una delle prime cose che racconta ai magistrati è proprio la triste storia di Andrea Sacchetti. Anche per lui, sostiene, quell’omicidio rappresenta una sorta di iniziazione.

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L’aspirante collaboratore afferma di essere stato convocato sulla scena subito dopo l’omicidio e di aver trovato Azzaro impegnato a lavare il pavimento sporco di sangue. Poco distante, giaceva il corpo esanime del quale Nigro non conosce il nome, ma tutto sembra rimandare al povero Sacchetti. Collabora all’occultamento del cadavere, caricato su una carriola e seppellito all’interno della fattoria. Lui stesso avrebbe poi accompagnato Pepe a gettare nel torrente i vestiti della vittima. A lavoro ultimato, i presenti gli chiedono di rendersi disponibile in futuro a occuparsi in prima persona di fatti di sangue. Per un aspirante ‘ndranghetista che muore, ce n’è un altro che quel giorno supera l’esame.