Una motocicletta che avanza a velocità troppo elevata e va a scontrarsi con un'auto che impegna l'incrocio «in modo imprudente», il tutto con conseguenze tragiche per il centauro. È la somma di queste due variabili che il 9 settembre 2023, a Cosenza, avrebbe determinato l'incidente costato la vita ad Antonio Ruperti di appena sedici anni. Otto mesi dopo, infatti, l'ingegner Alessandro Lima, esperto in infortunistica stradale nominato dalla Procura di Cosenza, ha depositato la relazione in cui è ricostruita la dinamica dello scontro tra l'Aprilia "Pegaso" guidata dal minorenne e la Jeep Renegade con al volante il poliziotto Gianmarco Minervino oggi indagato per omicidio stradale. Ciò che emerge, a giudizio del consulente, è un «concorso di colpa» tra i conducenti dei due mezzi, ma con qualche enigma ancora da risolvere. Vediamo perché.

Leggi anche

Lo scontro 

All'epoca, la tragedia si verifica in una traversa di via Panebianco, all'incrocio tra le vecchie via Montevideo e via Lazio che, oggi, in ossequio alla nuova topomastica, si chiamano rispettivamente via Falvo e via Martorelli. Proprio quest'ultima è la strada che, quel giorno, la Jeep percorre con l'intenzione di attraversarla tutta fino a via Sesti e piegare poi a sinistra in direzione del tribunale. Giunto al fatidico incrocio, il poliziotto che è alla guida aziona il freno, ma non arresta la marcia. Il risultato è si immette in via Falvo proprio nel momento in cui da destra arriva la moto guidata da Ruperti. L'urto fa sbandare la due ruote che percorre qualche metro e va sbattere contro un marciapiede. Quest'ultimo impatto ha un effetto catapulta: Ruperti viene sbalzato dalla sella e, dopo un volo di una decina di metri, va a sbattere in modo rovinoso contro il muro di una palazzina. Non muore sul colpo, riesce persino a rialzarsi. «Devo andarmene, devo andarmene» dice rivolto a un passante che si avvicina a lui per soccorrerlo. Ancora non lo sa, ma purtroppo le sue condizioni di salute sono già disperate. Morirà poche ore dopo in ospedale.

La velocità della Jeep

Per ricostruire nel dettaglio le fasi dell'incidente, gli investigatori si sono avvalsi di un video, estrapolato da una telecamera di sorveglianza, che documenta ciò che è avvenuto quel giorno. Come e perché sia avvenuto, ha provato a stabilirlo Lima. In base ai suoi rilievi, la Jeep con a bordo tre agenti della questura in borghese, procede a poco meno di trenta km orari. Prima di impegnare l'incrocio, gli stop posteriori si illuminano, segno che il conducente ha appena rallentato. La segnaletica gli impone di dare la precedenza, ma non arresta la marcia. S'immette lentamente in via Falvo, occupa parte della corsia su cui procede la moto proprio nel momento in cui quest'ultima arriva all'incrocio.  Secondo l'esperto della Procura, la sua «imprudenza» sta tutta qua. A questo si sommano anche condizioni ambientali tra le più sfavorevoli. Non a caso, gli automobilisti che arrivano a quell'incrocio da via Martorelli, si ritrovano con la visuale ostruita da un muro alto due metri e ricoperto dall'edera. Per capire se da destra stanno per sopraggiungere altri veicoli, devono per forza impegnare quell'incrocio di almeno un paio di metri. Insomma, è quasi certo che un campo visivo anche solo un po' più ampio, avrebbe consentito al poliziotto di avvedersi con largo anticipo dell'arrivo della moto. E invece, purtroppo, se n'è accorto solo quando se l'è vista piombare addosso.

Leggi anche

La velocità della moto

Via Falvo è davvero un brutto posto per fare un incidente. Fra i peggiori in assoluto. Una strada stretta, ma a doppio senso di circolazione. E con un limite di 50 km orari probabilmente già eccessivo di suo, ma che quel maledetto 9 settembre, lo sfortunato sedicenne in sella all'Aprilia supera di qualche unità. Procede a una velocità di 55-60 km orari, l'ingegnere avellinese ha accertato pure questo. Neanche lui, però, riesce a spiegarsi perché Ruperti non abbia frenato o tentato di sterzare per evitare l'ostacolo. È l'aspetto ancora oscuro di questa triste vicenda. Il consulente della Procura ne è certo: mentre il centauro percorre via Falvo, ha la visuale sgombra e ciò gli consente di avvistare la Jeep - che nel frattempo è già di traverso sulla strada - quando si trova a 17-20 venti metri di distanza da essa. Avrebbe tutto il tempo di frenare e, anche se non riuscisse a evitarla, la impatterebbe a una velocità di 40 km orari e non di 60 come, invece, si è poi verificato. Forse le conseguenze della sua caduta sarebbero state meno devastanti. Forse non sarebbero risultate letali. Forse, chi può dirlo.

Perché non ha frenato?

Ruperti, però, non sterza né frena. Va dritto addosso al Renegade bianco in uso alla questura cosentina. Pensava di riuscire a passare prima della Jeep o magari non si è accorto di avere davanti a sé quell'ostacolo? «Certamente - è scritto nella perizia - ha avvistato l'autovettura prima che il conducente di quest'ultima avvistasse lui». La distrazione di un secondo, al più un secondo e mezzo, anche questo potrebbe aver giocato un ruolo in una vicenda fatta da tante piccole circostanze sfortunate, che sommate fra loro, portano al grande dramma del 9 settembre 2023.  Nel frattempo, gli accertamenti tecnici non sono ancora conclusi. Il pm Maria Luigia D'Andrea ha chiesto ad Alessandro Lima un'integrazione al lavoro  già svolto, su quali aspetti del caso non è dato saperlo, ma il supplemento d'indagine peritale dovrebbe essere depositato nelle prossime ore. Non appena avrà in mano tutta la documentazione del caso, il pubblico ministero deciderà quale svolta imprimere all'inchiesta. Al momento, il poliziotto che guidava la Jeep è sotto indagine per il reato di omicidio stradale. I familiari della vittima, invece, seguono la vicenda giudiziaria da parti civili per il tramite dell'avvocato Mario Scarpelli. 

Leggi anche

L'inseguimento che non c'è

Una cosa è certa, sia il filmato che gli accertamenti eseguiti sul campo dai periti, smentiscono in modo definitivo le voci, circolate con insistenza nell'immediatezza, di un inseguimento tra la Jeep e la moto andato in scena, quel giorno, sulle strade di Cosenza. Sospetti destinati a generare tensioni che, all'epoca, raggiungono l'acme dopo i funerale di Antonio, quando un corteo motorizzato di amici e conoscenti del ragazzo sfila davanti alla questura cittadina al grido di «Assassini, assassini». E invece no. La verità è che sia i poliziotti che Antonio Ruperti passavano da via Falvo per caso. La beffa del destino, a volerne trovare una, è che nessuno di loro avrebbe dovuto trovarsi lì in quel momento. Vale per la Jeep, se è corretta la ricostruzione di Alessandro Lima, e pure per lo sfortunato sedicenne che, sprovvisto di patente, viaggiava in sella alla moto di un conoscente che sarebbe dovuta restare in garage poiché priva di assicurazione. Solo dettagli, ma che aggiungono rimpianti a una storia dolorosa. Che non ammette consolazione.