Che Matteo Messina Denaro possa aver goduto anche di appoggi cosentini per protrarre così a lungo la sua invisibilità è solo un sospetto, l’esistenza di rapporti fra i Corleonesi e i clan della città dei bruzi, invece, rappresenta una certezza. L’abbraccio tra le due realtà criminali, infatti, si concretizza quasi in contemporanea con l’ascesa del boss di Castelvetrano ai vertici di Cosa nostra.

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I contatti dietro le sbarre

L’anno che segna l’inizio di tutto è il 1985, la scena è quella del carcere di Trani. È lì che in quel periodo sono rinchiusi Stefano Bartolomeo e i fratelli Dario e Nicola Notargiacomo, ovvero gli uomini che il 13 marzo corrente hanno ucciso il direttore del carcere di Cosenza, Sergio Cosmai. Mentre sono dietro le sbarre, in attesa del processo, i tre cosentini entrarono in confidenza con altri due detenuti di peso come Antonino e Pino Marchese, esponenti della famiglia mafiosa che all’epoca regna su corso dei Mille a Palermo. Si accompagnano durante le ore d’aria ed è proprio nel cortile del penitenziario, tra una passeggiata e l’altra, che giungono alla conclusione foriera di oscuri presagi: «Noi siamo una cosa sola».

Per l’omicidio Cosmai, saranno prima condannati all’ergastolo e poi assolti in Appello per insufficienza di prove. Nel 1988, dunque, tornano a essere degli uomini liberi e scatenano una guerra di secessione contro il clan Perna-Pranno, del quale in origine facevano parte.

Alleati in guerra

Omicidi e attentati fioccano da una parte e dall’altra, e in quel contesto luttuoso le vecchie amicizie strette in carcere si rivelano preziose per i separatisti.  I Marchese, infatti, appartengono alla famiglia di Filippo Graviano, signore del quartiere Brancaccio di Palermo. Antonino Marchese è imparentato con Leoluca Bagarella e suo fratello Pino è il killer preferito di Totò Riina prima di diventare, nel 1992, il primo pentito nella storia dei Corleonesi.

Il rapporto privilegiato con loro ce l’ha Stefano Bartolomeo che, oltre a dividere la stessa cella con Antonino, si è poi legato a lui con un comparaggio. I Notargiacomo, invece, sono intimi di Marcello Tutino, Cristofaro “Fifetto” Cannella e Giovanni Drago, un altro che prima di diventare collaboratore di giustizia, porta a segno più di quaranta omicidi.

Medici e “chimici”

Amicizie di questo spessore tornano utili a settembre del 1989, dopo il rovinoso attentato subito da Bartolomeo e da suo fratello Giuseppe.  Entrambi restano gravemente feriti e una volta dimessi dall’ospedale scelgono la Sicilia come buen ritiro per sfuggire a nuove rappresaglie. Il gruppo si trasferisce così in un residence di Buonformello, in provincia di Palermo dove, per garantirne la completa guarigione, i Corleonesi mettono a disposizione uno dei loro medici personali.

Il perché di tutte queste attenzioni è presto detto. In quel periodo, infatti, tra siculi e calabresi è in corso un traffico di armi che da Cosenza arrivano nell’Isola passando da Lamezia. Carichi di kalashnikov e di Uzi vanno a ingrossare l’arsenale di Riina, mentre pistole e fucili già utilizzati dai mafiosi sono riciclati nella guerra che i Bartolomeo-Notargiacomo combattono contro l’ex casa madre. E non solo. Da Catania, infatti, arriva in Calabria anche un “chimico” al servizio di Cosa nostra. Alloggerà per qualche mese in una villetta di Rende, nel quartiere residenziale di Sant’Agostino, per istruire i ribelli all’utilizzo di tritolo, plastico e altri esplosivi

Fine di un’amicizia

Per loro finirà male, anzi malissimo, tant’è che quel conflitto si chiude nel 1991 con la loro disfatta. I Bartolomeo cadono nel tranello di una finta pace proposta dai rivali che, dopo averli attirati con un pretesto, li fanno sparire con il metodo della lupara bianca. I Notargiacomo riescono a evitare una fine analoga dandosi alla latitanza, ma ben presto viene meno per loro anche l’ultimo appiglio al quale si sono aggrappati: l’amicizia con i siciliani.

Del resto si è appena pentito Pino Marchese e nella mente dei due fratelli in fuga cresce la convinzione, tutt’altro che errata, di essere diventati scomodi agli occhi di Cosa Nostra. Decidono così di arrendersi alla giustizia, e poco tempo dopo la loro collaborazione permette agli inquirenti di imbastire l’inchiesta “Ferry boat” che farà luce proprio su quel traffico di armi tra Calabria e Sicilia. Le loro confessioni, confermate da quelle di Drago e Marchese, portano alle condanne, fra gli altri, degli stessi Graviano, Bagarella e Riina. Ed è così che, tra una guerra perduta e un tradimento, si conclude il gemellaggio tra ’ndrangheta cosentina e mafia siciliana.