Giovanni De Grandis faceva parte della squadra di sicari calabresi che nel 1994 uccise Vittorio D’Ammassa, nonostante i numerosi segnali di redenzione per i giudici non c’è prova del suo «sicuro ravvedimento»
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È in carcere dal 1995, condannato all’ergastolo per omicidio ed estorsione. E nonostante usufruisca della semilibertà da quasi dodici anni, per i giudici non è ancora pronto a tornare nella società civile in modo definitivo. Parliamo del cosentino Giovanni De Grandis, 59 anni, a cui il Tribunale di sorveglianza prima e la Corte di Cassazione poi, hanno respinto istanze e appelli finalizzati a ottenere la libertà vigilata, preludio all’estinzione della pena.
Per i togati non basta che l’uomo lasci già ogni giorno la casa circondariale “Cosmai” per recarsi al suo lavoro da netturbino, che da anni presti opera di volontariato in un’associazione di Cosenza e che abbia scontato tra le mura domestiche l’intero periodo di emergenza Covid. A loro avviso, malgrado tutti gli indizi di compiuta redenzione, manca ancora la prova del suo «sicuro ravvedimento». A dargli la spallata finale, però, è stata un’accusa di minacce piovutagli addosso nel 2020. Anche in questo caso, a nulla è valsa la sua professione di innocenza né che la parte offesa abbia poi ritirato la querela. Niente liberazione condizionale per lui, almeno per il momento.
Il delitto per cui è stato condannato De Grandis è quello di Emanuele D’Ammassa, avvenuto a Frascati il 27 giugno del 1994. L'uomo lavorava a Cinecittà come macchinista di scena e aveva collaborato alla realizzazione di numerosi film, tra cui "Una pura formalità" di Giuseppe Tornatore. Il suo è uno degli episodi di cronaca nera più celebri di quel decennio: un omicidio su commissione con la moglie della vittima nelle vesti di mandante.
In quei giorni, Patrizia Midei, poi ribattezzata con poca fantasia “Dark lady dei castelli romani”, sogna di sbarazzarsi del marito per dedicarsi liberamente ai suoi numerosi amanti. Si confida con un’amica, Patrizia Iafrati, che a chiusura di un cerchio diabolico, le suggerisce di assoldare alcuni suoi “amici” calabresi, che le risolverebbero il problema in cambio di una cifra tutto sommato modica: trenta milioni di lire.
È il prologo al fattaccio di Frascati. Da Cosenza parte una squadra formata da Antonio Sgrò, 38 anni, Pino Grosso di 25 e dall’allora ventinovenne De Grandis. Proprio lui, resterà in auto mentre gli altri due eseguiranno l’omicidio con modalità più che brutali: un cappio attorno al collo, girato dietro a un braccio e poi tirato giù fino alle gambe. Quel giorno, il povero D’Ammassa muore così: per incaprettamento.
La loro impunità dura solo otto mesi. Sgrò, infatti, non si accontenta della cifra pattuita. Comincia a ricattare la vedova che, nel frattempo, è intercettata dalla polizia. A dialoghi incriminanti, fanno seguito mezze ammissioni. Scattano gli arresti, poi le condanne. Una vicenda datata, ma tornata attuale nel 2023, quando Sgrò, anche lui destinatario di benefici carcerari, sale ancora ai disonori della cronaca a Vasto, in Abruzzo, per aver piazzato una bomba sotto l’auto di una donna, vicenda per cui sarà condannato a cinque anni e sette mesi di reclusione.