Si professò innocente sin dal primo grado di giudizio, ma la sua colpevolezza fu dichiarata e ribadita senza esitazione dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano come dalla Suprema Corte. Prese parte al sequestro, concorse all’omicidio, fu protagonista delle efferate fasi di distruzione del cadavere di Lea Garofalo rappresentate in aula, al fotofinish del processo di secondo grado dal collaboratore di giustizia Carmine Venturino. Condannato all’ergastolo, dopo oltre dieci anni di detenzione, Rosario Curcio si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del supercarcere di Opera. Nel cofano della sua Passat, in uno scatolone, fu trasportato il corpo di Lea, dopo l’uccisione in un appartamento di Milano. Quasi decapitata, la testimone di giustizia, fu gettata un fusto metallico, bruciata, mentre gli aguzzini, per accelerare la distruzione del cadavere, ne frantumarono le ossa con un badile ed un ferro da cantiere. Cenere e frammenti ossei furono poi gettati in un tombino.

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Le parole della sentenza

L’ergastolano suicida, per la cui morte il sindaco di Petilia Policastro Simone Saporito e la sua amministrazione hanno espresso il loro cordoglio (salvo chiarire che il manifesto funebre fosse solo frutto di un “automatismo” provocato dalla convenzione tra il Comune e l’agenzia funebre che l’ha prodotto e affisso), era questo, secondo la giustizia italiana. I giudici milanesi lo ritennero, dunque, colpevole di fatti connotati da «estrema gravità», espressivi «della mancanza di umana pietà nell’infierire perfino sui resti di una persona verso la quale l’imputato non aveva alcuna ragione di astio». E poi «l’intensità del dolo evidenziata attraverso il completamento dell’intero progetto delittuoso, la mancanza di qualsiasi segno di resipiscenza, ostano al riconoscimento delle richieste attenuanti».

Lo scontro politico

Insomma, nessuna «resipiscenza», nessun ravvedimento nel corso del processo, annotarono i giudici. Al carcere, però, Curcio non ha retto. E quel manifesto funebre, scatena la polemica politica. È bagarre nell’Ance, con i sindaci di quattro capoluoghi (Catanzaro, Cosenza, Crotone e Reggio Calabria) che contestano «l’imbarazzo» ed il «silenzio» della presidente Rosaria Succurro, con la quale il sindaco Saporito è politicamente schierato. Il primo cittadino petiliese ribadisce la sua buona fede nella vicenda e, anzi, oltre ribadire che non vi è stata alcuna commissione del manifesto di cordoglio a suo nome, spiega come alla vigilia del funerale di Rosario Curcio si sia prodigato per fermare ogni affissione.

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L’attenzione dello Stato

Sulla vicenda, d’altronde, resta altissima l’attenzione dell’Ufficio territoriale del Governo di Crotone guidato dal prefetto Franca Ferrara, come della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e dei Carabinieri del comando provinciale di Crotone, intenzionati a chiarire ogni aspetto oscuro della vicenda, anche nell’interesse della ostentata buona fede dell’amministrazione comunale, che comunque rischia di provocare un arretramento della cultura antimafia in un territorio che, grazie all’esempio di Lea Garofalo e ai risultati straordinari ottenuti dagli apparati dello Stato, aveva invece compiuto significativi passi in avanti.