«È comodo anche per i calabresi limitarsi a fare il tifo per le Procure Dda o per la ‘ndrangheta, senza nemmeno chiedersi quanto si è disposti a perdere per combattere queste battaglie, senza rischiare nulla, come se la generosa sovraesposizione di pochi potesse salvare tutti». È una riflessione molto seria quella del sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Stefano Musolino, nel suo intervento per “Il Manifesto”. Il magistrato, in un editoriale dal titolo “Le risposte che servono alla Calabria”, affronta un nodo centrale degli ultimi tempi: il rapporto fra cittadinanza e giudici e quale sia il ruolo di entrambi all’interno del sistema giustizia.

Tanto tifo ma poche responsabilità

Musolino non usa mezzi termini: «Fare il tifo è più comodo che prendersi le responsabilità, anche dentro la magistratura». Stilettata che arriva dritta anche ai colleghi. «Sia chiaro: l’enfasi comunicativa sugli esiti delle indagini – rimarca il pm di Gotha – ha una nobile funzione di esortazione della cittadinanza a liberarsi dal giogo mafioso, mettendo in crisi la mitologica invincibilità della ‘ndrangheta, mentre l’ottimo lavoro svolto dalla Procura di Catanzaro mette a nudo, ancora una volta, le commistioni di interessi che segnano la classe dirigente e quella politica calabrese, nell’ambito di stanze di compensazione».

Il caso vibonese

Il ragionamento di Musolino, però, va oltre: «La liberazione della provincia vibonese dalla ‘Ndrangheta non dipenderà affatto dagli esiti del procedimento avviato dalla procura di Catanzaro». Il pubblico ministero ricorda come lo stesso Gratteri abbia riconosciuto ciò, invitando i cittadini ad occupare gli spazi liberati e sottolinea come il lavoro fatto in questi anni abbia colmato parzialmente il gap di conoscenza di un fenomeno che «solo per grandi linee può essere sovrapposto a quello di Cosa nostra».

Musolino riconosce come la ‘ndrangheta abbia scelto di non entrare in contrapposizione con lo Stato e le classi dirigenti sociali, «ma di venire a patti e di essere, così riconosciuta da costoro interlocutore facoltoso e potente». E purtuttavia, l’amara considerazione del magistrato è che «la società calabrese non sembra avere invertito la rotta, nonostante le misure cautelari emesse, le condanne e confische inflitte in plurimi procedimenti penali».

Calabria, quale agenda politica?

E se le statistiche dimostrano «un’incontenibile diaspora giovanile», ma anche «una società più vecchia, più povera, disgregata e frammentata», il pm è certo che «diventa comodo confidare nell’azione salvifica di imponenti azioni giudiziarie, senza mettere mai al centro dell’agenda politica le problematiche strutturali che relegano la Calabria ai margini economici e politici del Paese».

Il messianismo della repressione

«Con dolo o con colpa – aggiunge Musolino – si alimenta il messianismo della repressione penale, torcendola a finalità che le sono estranee e trascurando i devastanti effetti personali, economici e, quindi, sociali e culturali che ne discendono E si perde di vista l’essenza dei problemi economici e culturali che sono la causa della pervicace resistenza della ‘ndrangheta, deresponsabilizzando le istituzioni chiamate a creare le condizioni per investimenti strutturali che possano risollevare la Calabria dalla sua atavica povertà economica».

La considerazione più amara, però, è quella successiva: «Il giovane calabrese che guardi al suo futuro si trova ad avere come interlocutori affidabili la ‘ndrangheta o la peggiore politica della clientela che va a braccetto con la prima. Se non vogliamo vederli partire ancora questi giovani, se non vogliamo vederli partire tutti, dobbiamo dargli altre opportunità, altre risposte».