Dalle intercettazioni contenute nell’ordinanza della Dda di Reggio Calabria che ha smantellato la logistica del traffico di droga nel porto calabrese, emergono le soluzioni utilizzate per importare dalla Colombia migliaia di chili di polvere bianca evitando che i container attirassero l’attenzione
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Il filo rosso che lega la Colombia alla Calabria passa dal controllo dei porti. Lo scalo di Turbo in sud America, quello di Gioia Tauro in Europa. Questi i due punti sulla mappa individuati dalla gang, scoperta giovedì dalla distrettuale antimafia dello Stretto, come vertici di una rete capace di portare in Italia montagne di cocaina. Anche due tonnellate alla volta. Una rete gestita dai broker Imperiale e Bruzzaniti che, ognuno per la sua parte, coordinavano l’importazione dei carichi di droga e il successivo trasbordo attraverso le maglie dei controlli che la stessa gang era in grado di allargare a proprio piacimento. Sul piatto, un carico “monstre” di 1900 chili di cocaina da nascondere dentro il solito container carico di banane e da portare poi fino a Catania, nei capannoni della ditta di copertura.
Un’operazione curata nei minimi dettagli e gestita attraverso l’uso dei criptofonini legati al sistema Skyecc, ritenuti inviolabili fino all’operazione Interpol che riuscì a scardinarne i segreti nel marzo dello scorso anno. Ed è proprio dalla lettura delle chat che gli investigatori sono riusciti a ricostruire le capacità “imprenditoriali” del gruppo finito agli arresti.
Fermo posta Gioia Tauro
Considerato la quantità di cocaina in ballo, sono diverse le ipotesi messe in piedi dai presunti narcos su come trasportare la “merce”. La prima ipotesi avanzata prevedeva il totale riempimento di un container da clonare con uno pieno di merce comune, sulla nave durante il viaggio o direttamente in porto prima dello scarico, prima dei controlli doganali «Lo riempiamo “a tappo” – propone Bruzzaniti – poi nel frattempo facciamo il gemello a terra con banane e numero di pedane gemelle. Quando arriva la nave mandiamo a controllo il clonato e quello originale ce lo portiamo fuori».
Ma i rischi sono alti, il container “contaminato” potrebbe essere portato all’area d’ispezione. «Poi come facciamo a scambiarlo se sono piantonati – dice Domenico Iannacci che, ipotizzano gli investigatori, fa parte della parte organizzativa calabrese – quindi cambiamo».
Lo schema
Accantonata l’ipotesi clone, il gruppo punta diretto sull’idea di occultare il carico nascondendolo in un grosso container carico di banane. Ma la droga è tanta, il rischio di perderla a causa dei controlli delle forze dell’ordine è elevato, e le cose vanno pianificate con attenzione. I “panetti” di cocaina sono 1920, del peso di un kg ciascuno e vengono stipati a gruppi: 192 per ogni pallet di banane. Anche la disposizione dei pallet “contaminati” viene studiata a tavolino. Escluse le prime quattro file così come le ultime, che sulla nave saranno poste proprio vicino ai motori della nave e potrebbero rovinare parte della merce. È Imperiale a dettare le regole: «vi confermo che sono 1920 – dice al telefono il broker campano alla sua controparte calabrese – quattro file libere, quella dietro motore anche. Le pedane sono nove file, la prima sopra è pulita, otto sono contaminate. Cioè 192 a pedana compà».
I timori dei controlli
I soldi in ballo sono tanti e il rischio che qualcosa possa andare male nonostante tutte le precauzioni prese è concreto. Di questo ne sono consapevoli anche i “finanziatori” dell’impresa che pur coinvolti, preferiscono aspettare la conclusione dell’affare prima portarsi avanti con nuovi “ordini”.
«Io onestamente non mi fido neanche – confida intercettato Bruno Barbaro, una montagna di precedenti per droga e un curriculum familiare di primo piano – questi qua hanno detto così, metti nel pallet, la cassa arriva in ispezione però passa come se è stato controllato.
Il mio amico ha detto che è pericoloso, ma il lavoro è in cammino quindi se va, va compà, mica butto troppo». Le stesse paure che, in fondo, tormentano i presunti promotori del traffico: «Non potevamo diversamente compà – dice ancora Imperiale a Bruzzaniti – Se funziona possiamo fare belle cose con questa linea. Che Dio ce la mandi buona».