Viale Santo Stefano (Szent Istvan korut) è una passeggiata nel centro di Budapest, una di quelle che portano al Danubio. Ospita un bel teatro, il Vígszínház, realizzato alla fine del Novecento: nella programmazione drammi e cabaret ungherese. C’è anche un ristorante italiano: chissà se ha attirato gli imprenditori che, nel corso degli anni, hanno scelto come riferimento per i loro affari uno studio situato al numero 27 del boulevard

È una rete vasta, che tiene assieme – tra gli altri – colletti bianchi vicini alla ‘ndrangheta, banchieri spregiudicati e faccendieri. Un terreno popolato da professionisti a proprio agio con le leggi della finanza e le crepe che esse offrono a operazioni borderline. Mondo di mezzo fatto di imprese amministrate da presunti prestanome calabresi e finanzieri con casa ai Parioli. In questo reticolo di affari si sono imbattute tre direzioni distrettuali antimafia: Catanzaro, Milano e Reggio Calabria. Il centro è nel cuore dell’Ungheria, paradiso per corsari in cerca di fortuna e di un modo per sfuggire alle leggi italiane

La speculazione immobiliare a Pizzo e i contatti Barone-Szilagyi

«Questa operazione è stata fatta tutta all’estero, a Budapest, dal nostro avvocato ungherese». Giovanni Barone, ragioniere romano con solidi e pericolosi (secondo la Dda di Catanzaro) rapporti in Calabria, è uno dei più assidui frequentatori della legale Edina Szilagyi, titolare dello studio magiaro. L’«operazione» alla quale si riferisce è la costruzione di un complesso immobiliare in contrada Marinella a Pizzo. È una speculazione che ha messo entrambi nei guai: su Barone pende una richiesta di rinvio a giudizio nel procedimento “Rinascita-Assocompari”, terza tranche della maxi inchiesta sulla ‘ndrangheta nel Vibonese, sulla posizione di Szilagyi i magistrati antimafia adottano la formula «si procede separatamente». Entrambi, però, sono al centro dell’operazione che avrebbe dovuto vedere la nascita di «un edificio che – almeno nei piani iniziali – avrebbe dovuto ospitare 32 unità abitative più imprecisati locali commerciali e il cui valore, una volta terminato, veniva stimato intorno ai 4-5 milioni di euro». Per Barone si tratterebbe soltanto di una delle attività svolte per conto del clan Bonavota: il professionista sarebbe, infatti, per l’accusa, «un importante punto di riferimento del sodalizio, soprattutto nel settore della infiltrazione in attività imprenditoriali, nella gestione di grandi aziende, nella realizzazione di affari e speculazioni finanziarie». Un «braccio operativo, consulente, finanziatore» che avrebbe facilitato «l’apertura di conti correnti all’estero, recuperando liquidità e immettendola se necessario nelle imprese di interesse del sodalizio».

Le sue basi fuori dall'Italia? Per la Dda sarebbero «Ungheria, Inghilterra e Russia». Le indagini su Barone partono nel 2017; dopo il blitz Rinascita Scott, nel quale risultava tra gli indagati (la sua posizione è poi stata stralciata), gli investigatori individuano a Budapest il centro dei suoi traffici e perquisiscono lo studio dell’avvocatessa Szilagyi. Vi trovano materiale di interesse investigativo e tracce dell’attività del ragioniere tra l’Ungheria e la Calabria. Dall’analisi dei conti della Veritas Menedzement Kft emergono movimenti che gli inquirenti considerano sospetti e che portano Barone e i suoi soci inglesi a controllare la società edilizia che realizza l’immobile a Pizzo. E a trovare liquidità che serve a pagare i debiti contratti con quattro ditte che i magistrati considerano nell’orbita del clan di Sant’Onofrio. I bonifici fanno un giro largo: partono da un conto inglese, fanno scalo a Cipro e arrivano sui conti ungheresi della Veritas per essere poi spediti alle ditte in Calabria. Una parte di ciò che rimane viene prelevata in contanti da Edina Szilagyi, un’altra finisce a Barone e non mancano versamenti per avvocati, commercialisti, notai. Budapest è lo snodo centrale degli affari. Le strategie sono concepite nello studio a poche centinaia di metri dal Danubio con la regia di Barone, che ha grandi progetti per l’amica avvocatessa. Prima c’è da chiudere l’affare a Pizzo, le dice, «poi facciamo la struttura in Ungheria e in Italia pure, a Milano, perché tu hai bisogno di stare anche in Italia per il semplice fatto che gli italiani non sempre vogliono venire in Ungheria. Quindi possiamo fare una succursale direttamente in Italia… e poi ti faccio vedere io quanti…». Uno dei passaggi obbligati avverrà, nelle intenzioni dei due, nel capoluogo lombardo, grazie a un commercialista amico di Barone che dovrebbe aiutare Szilagyi «a espandere il proprio ambito di collaborazioni professionali». 

I clienti italiani dello studio in riva al Danubio

Questi sono i progetti. Ma gli italiani che frequentano viale Santo Stefano sono già parecchi, ciascuno con la propria storia. «Ulteriori contesti criminali connessi allo studio dell’avvocato Edina Szilagyi»: così riassumono gli investigatori in una corposa informativa. A partire dal 2017 lo studio dell’avvocato sarebbe emerso come «sede di alcune società ungheresi oggetti di sos o di informative spontanee redatte» da unità di informazioni finanziarie estere o della Banca d’Italia. Quelle società sarebbero state «per lo più rappresentate da cittadini italiani o da soggetti comunque stanziali in Italia, la maggior parte dei quali gravati da pregiudizi penali o di polizia». Quattro di esse sono riconducibili a un 47enne milanese con segnalazioni per emissione di fatture per operazioni inesistenti e ricettazione.

A carico dell’uomo, gli investigatori segnalano «diversi collegamenti con esponenti legati a contesti di ‘ndrangheta, orbitanti anche nell’hinterland milanese». Legami che passano per il noleggio di autovetture di lusso da parte di personaggi di primo piano delle cosche Bonavota e Piromalli. Un’altra società intestata alla sorella dell’avvocato Szilagyi sarebbe invece emersa in una sospetta attività di riciclaggio incentrata attorno alla figura di un finanziere romano. Dalle sue società con sede ai Parioli sarebbero partiti, in due tranche, 700mila euro sul conto della compagine ungherese. Il denaro avrebbe poi preso la strada di un trust con sede a Dubai, dove il finanziere risulta residente e di una società di assicurazioni con sede negli Stati Uniti. In un terzo caso sono gli stessi Barone e Szilagyi ad additare come «poco affidabile» un cliente che possiede ben tre società con sede legale nello studio di viale Santo Stefano a Budapest. Difficile dar loro torto, visto che l’uomo, di origine campana, ha precedenti per la commissione di reati di natura finanziaria e per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta aggravata nel settore delle telecomunicazioni. C’è un’altra speculazione immobiliare che il ragioniere e l’avvocato progettano a Budapest: parlano dell’acquisto del “Dohany residence”, operazione finanziaria da 7-8 milioni. I due, intercettati, dicono che avrebbero potuto rivendere la struttura al prezzo stimato di 18 milioni di euro. I progetti restano sospesi ma provano che il cuore del business è in Ungheria.  

Black Steel e le società fittizie con “teste di legno” calabresi

Anche l’inchiesta “Black Steel” della Dda di Milano finisce per “bussare alla porta” dello studio Szilagyi. Gli investigatori seguono un giro mostruoso di denaro contante: 70 milioni di euro che avrebbero alimentato una sospetta rete di riciclaggio con base nell’area di Monaco di Baviera. Al centro c’è ancora una volta un calabrese: Maurizio Rullo, originario di Locri con uno sfortunato passato da presidente del Novara Calcio. Rullo avrebbe acquistato nel corso degli anni molte tonnellate di rottami di ferro al mercato nero, per poi vendere il materiale alle fonderie tramite una società di Milano. Usando documenti contraffatti, apparentemente l’imprenditore avrebbe spacciato i rottami per materiale riciclato correttamente, rivendendoli così a un prezzo maggiorato. Per mascherare l’attività illegale, l’imprenditore avrebbe creato una complessa struttura aziendale in Germania, Ungheria, Croazia e Bulgaria. La squadra investigativa comune italo-tedesca collega (anche) cinque società ungheresi ai presunti traffici di Rullo: tutte hanno sede in Szent Istvan korut 27.2, dove «risulta essere la sede degli uffici dell’avvocato Edina Szilagyi». Per i magistrati della Dda di Milano si tratta di compagini create per sostenere il gigantesco sistema di riciclaggio ipotizzato nelle indagini. Quattro su cinque sono intestate a calabresi e alcune di esse sono collegate a un altro gruppo di società – questa volta con sede in Bulgaria – attive proprio nel commercio di rottami ferrosi. Per il gip che si è espresso sull’inchiesta il quadro delineato «fa fondatamente ritenere che si tratti di società facenti parte di una rete di società strumentalmente costituite con sede all’estero e con a capo degli amministratori “teste di legno” appositamente reclutati». Si rivolgono tutti allo stesso studio: dalla provincia di Vibo Valentia al Milanese (anche se i legami con la Calabria sono forti). 

Il legame con Petrolmafie

C’è un nome, tra gli altri, che richiede una citazione sempre da parte del giudice per le indagini preliminari di “Black Steel”. Il magistrato Massimo Baraldo sottolinea che l’avvocato ungherese Edina Szilagyi «è risultata essere in contatto con Giovanni Camastra, amministratore della C&C Trading Kft». Si tratta di un’altra compagine che, secondo gli inquirenti avrebbe avuto l’unico scopo di «spostare le attività di riciclaggio nei Paesi dell’Est Europa». Le fatture sarebbe state emesse “a tavolino” dalle ditte ungheresi alle società di trasporto bulgare. Una di queste, amministrata da un presunto prestanome di Palmi, non aveva né un sito internet né un parco veicoli. E nelle fatture non risultano né il numero civico dell’azienda né numeri di telefono. 

Non è un caso che le attenzioni del gip si concentrino su Giovanni Camastra. L’imprenditore compare in un’inchiesta della Dda di Reggio Calabria, uno dei tronconi dell’indagine “Petrolmafie”. I pm lo considerano vicino alle cosche reggine (il Tribunale del riesame ha successivamente escluso l’aggravante mafiosa); avrebbe avuto un ruolo in operazioni di riciclaggio legate allo smercio di prodotti petroliferi e in una presunta operazione di evasione dell’Iva per milioni di euro. Accuse tutte da provare. Resta la presenza dell’imprenditore nell’orbita dello studio legale ungherese. Le indagini a Monaco di Baviera nascono proprio quando la presenza di Camastra salta fuori dall’analisi dei dati dei “Paradise Papers”. Il nome dell’imprenditore di Locri è legato a due società con sede a Malta (Mediterraneo Trading Ltd e Mediterraneo Holding Ltd); le ipotizzate relazioni pericolose con le cosche calabresi accendono i riflettori sulle altre società amministrate da Camastra. Il filo si snoda e conduce a Budapest, nello stesso studio legale di fiducia di Barone. Quello che il professionista considerato vicino al clan Bonavota vorrebbe far crescere aprendo una sede a Milano perché gli italiani non sempre vogliono andare a Budapest. Non c’è dubbio, però, che negli anni scorsi molti calabresi abbiano fatto dell’Ungheria un punto di riferimento per i propri affari e che alcuni traffici siano finiti al centro degli approfondimenti delle Procure antimafia. Il fascino del Danubio (e del denaro, meglio se contante) non tramonta mai.