Ci sono interrogativi che bussano con prepotenza, il giorno dopo l’esecuzione di Marcello Bruzzese, il fratello del pentito Girolamo, ucciso a Pesaro la sera di Natale con decine di colpi d’arma da fuoco. Interrogativi da risolvere, ma anche messaggi da decodificare oltre le apparenze.

Il nome nella cassetta della posta

Già in tanti, nelle ore immediatamente successive al delitto, si sono interrogati su cosa non sia andato per il verso giusto nelle misure di protezione disposte dallo Stato nei confronti di Marcello Bruzzese. Egli, infatti, era sottoposto ad un programma specifico che ne prevedeva il trasferimento in un’altra città. Differentemente da come accade di solito, però, Marcello non aveva cambiato cognome. Anzi, come scoperto dall’inviato di Tgcom24, nella cassetta della posta della sua abitazione di via Bovio, vi era addirittura una targhetta con scritto “Bruzzese”.

Ed allora il primo grande interrogativo è il seguente: esistono delle falle nei sistemi di protezione creati dallo Stato per pentiti, testimoni di giustizia e più stretti congiunti? Come sappiamo, in effetti, tutte le volte che un uomo decide di saltare il fosso e parlare con i magistrati, anche i suoi parenti più vicini vengono invitati ad aderire al programma di protezione. In alcuni casi questo viene accettato di buon grado, in altri si rifiuta per prendere le distanze dal proprio congiunto. Marcello, anche se dopo un po’ di tempo, era rientrato in tale programma ed ormai da tre anni viveva a Pesaro. Bruzzese, dunque, era sottoposto ad una protezione che non prevedeva alcuna misura particolare, oltre al trasferimento in un’altra città? Così sembra, considerata la vita assolutamente normale dell’uomo che probabilmente non temeva di essere ucciso.

Simboli e ricorrenze dei clan

E partendo dal primo interrogativo s’innesta anche un’amara riflessione: le modalità con cui Bruzzese è stato freddato non lasciano spazio a dubbi. Si tratta di killer professionisti che hanno scaricato sul corpo del 51enne oltre 30 colpi di arma da fuoco, dopo averne studiato abitudini e movimenti. Non è certo l’opera di persone che si sono trovate a sparare episodicamente. È un “lavoro” che porta il marchio di fabbrica della ‘ndrangheta. Non è un caso che il fascicolo sia già passato alla Dda di Ancona. Ma non casuale è anche la scelta della data: uccidere a Natale, nel linguaggio mafioso, significa infliggere un dolore immenso, costringere una famiglia a rinunciare ai festeggiamenti, facendo diventare il 25 dicembre una giornata di lutto e ricordo del proprio caro.

Come dimenticare i casi emblematici della faida di San Luca, con le stragi di Natale e di Ferragosto? Una data di festa può e deve diventare - nei codici mafiosi del disonore - un momento di profondo dolore, in grado di ritornare ciclicamente ed in maniera definita. Specie per coloro che si “macchiano” - secondo le contorte leggi delle mafie - di aver violato quella impenetrabilità tipica delle famiglie di ‘ndrangheta.

La ‘ndrangheta non dimentica

A ciò va aggiunto che la criminalità organizzata calabrese ha una memoria che va oltre i decenni. Sfuggito ad un primo agguato nel 1995, dopo il pentimento del fratello, evidentemente, vi era una sentenza inappellabile di morte sulla testa di Bruzzese. Una sentenza che il tribunale della ‘ndrangheta aveva emesso senza possibilità d’appello né di prescrizione. Perché, a queste latitudini, le cosche sanno anche portare pazienza. Sanno attendere mesi, anni, decenni prima di compiere il loro definitivo disegno di sangue. Magari, come emerso anche in più inchieste, con l’ausilio di pezzi di Stato che tradiscono.

Quando i servizi svelavano i luoghi dei pentiti

A ricordarlo, di recente, è stato il pentito Emanuele Di Filippo che, parlando al processo “‘Ndrangheta stragista”, ha affermato che «Leoluca Bagarella individuava i pentiti grazie alle informazioni ricevute dai servizi segreti». Una circostanza non del tutto nuova e che, anche in tempi recenti, ha visto altri collaboratori confermarlo. Come, pure, è stato il caso di Nino Lo Giudice, il pentito noto per aver piazzato le bombe davanti alla procura generale reggina, che disse di essere stato avvicinato da alcuni uomini, mentre si trovava in località protetta.

Le domande a cui dare risposta

Insomma, la vicenda di Bruzzese inevitabilmente riporta ad alcuni interrogativi a cui solo gli accertamenti di questi giorni potranno dare risposta: qualcuno ha svelato il luogo in cui Marcello viveva? Si doveva proteggere diversamente il fratello di un collaboratore che ha inguaiato una cosca sanguinaria come quella dei Crea di Rizziconi? Forse. Di certo, qualcosa è andato storto se la ‘ndrangheta è riuscita ancora una volta ad eseguire indisturbata la sua missione di morte assai lontano dagli angusti confini calabresi. Perché nonostante sia diventata ormai una holding internazionale che siede nei consigli d’amministrazione più importanti, la mafia calabrese rimane pur sempre un’organizzazione che fa del terrore e della violenza la propria arma principale. Quella che le permette di continuare a controllare interi territori, soggiogando popolazioni ed imponendo quel codice del disonore che lo Stato combatte ogni giorno, con ottimi risultati ma con grande fatica.