Il poliziotto in pensione ha ribadito di avere sempre creduto a quanto raccontato dalla moglie: «Siamo vittime di un linciaggio mediatico senza precedenti»
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Il cameriere sta per prendere l’ordinazione, ma poi si rivolge alla donna che siede al tavolo e le dice: «Ah, lei è Isabella Internò, l’assassina di Donato Bergamini». Questo episodio, avvenuto in un pub della città, Luciano Conte lo ha raccontato oggi in coda alla sua lunga e drammatica testimonianza. La scena era quella del processo Bergamini. E in aula c’era proprio lui, il marito dell’imputata, già fidanzata dell’ex calciatore del Cosenza, Donato Bergamini, morto tragicamente il 18 novembre del 1989. «Un suicidio» ha sempre sostenuto la Internò, all’epoca diciannovenne e testimone oculare della scena.
Un omicidio mascherato da suicidio, sostiene oggi la Procura. Che poi è il tema del processo. È il secondo tentativo di dimostrare questa tesi, dopo una prima inchiesta avviata nel 2011 e conclusa nel 2014 con l’archiviazione. In aula, Conte ha ripercorso lo psicodramma che lui e i familiari vivono ormai da tredici anni. «Un massacro, un linciaggio mediatico senza precedenti». In tal senso, l’incidente del pub è solo uno dei tanti episodi che hanno messo sotto pressione lui e la sua famiglia.
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Non a caso, il sovrintendente di polizia oggi in pensione, ha fatto accenno anche all’inferno vissuto in questi anni dalle loro figlie: «Ogni volta che usciva una notizia sul giornale, non andavano a scuola. Una di loro è stata in cura da uno psicologo. Avevo paura quando uscivano di casa da sole. In questa storia, sono stati volutamente coinvolti i tifosi, e temevo che qualcuno un po’ più acceso potesse prendersela con loro». All’epoca dei fatti lui era un poliziotto in servizio alla Squadra Mobile di Palermo. «Con Isabella – ha affermato - c’erano solo rapporti telefonici. Ci eravamo visti un paio di volte. Ci siamo fidanzati intorno a febbraio o marzo del 1990». Il 7 dicembre del 1992 poi quella ragazza diventerà sua moglie. Della triste vicenda avvenuta a Roseto Capo Spulico, sostiene, non hanno mai parlato. Se non a partire dal 2011, dopo la riapertura del caso. «L’avevo chiamata una sera da Palermo, per salutarla. E lei mi raccontò che il suo ex, con il quale si era lasciata da sei o sette mesi, si era buttato sotto a un camion davanti ai suoi occhi. Aveva la voce tremante, provai a tranquillizzarla, dicendole di provare a dimenticare quel brutto momento. E di rimuoverlo».
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È proprio Isabella, già nell’immediatezza a fare il suo nome al magistrato Ottavio Abbate, presentandolo come «amico di famiglia» con il quale intratteneva «rapporti telefonici». L’allora pm Ottavio Abbate dispone accertamenti immediati sul suo conto. Ed emerge, senza ombra di dubbio, che nella sera fatale, Conte si trovava in caserma, nel capoluogo siciliano. Ciò nonostante, nel 2018, anche lui finirà nel tritacarne giudiziario. «Per un’intercettazione del 2012 – ha spiegato il diretto interessato – mentre accompagno mia moglie in Procura che doveva essere sentita come persona informata sui fatti. La esorto a dire la verità, solo la verità, e nel caso in cui non avesse ricordi nitidi su alcuni fatti, a dire semplicemente: non ricordo». Il risultato, sei anni più tardi, è la sua iscrizione nel registro degli indagati con l’accusa – poi archiviata – di favoreggiamento. Continua a leggere su CosenzaChannel.it