La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la condanna a 13 anni di reclusione inflitta a Carmine Greco, maresciallo dei Carabinieri Forestali, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, rivelazione di segreto d’ufficio e omissione di atti d’ufficio, nell’ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta “mafia dei boschi” in Calabria. La decisione dei giudici di legittimità impone una nuova valutazione da parte della Corte d’Appello di Catanzaro, dopo aver rilevato lacune nella motivazione della sentenza d’appello.

Le accuse e il processo

Greco, comandante della Stazione dei Carabinieri Forestali di Cava di Melis, era stato accusato di favorire le imprese di Pasquale, Antonio, Rosario e Luigi Spadafora, presunti affiliati alla 'ndrina di San Giovanni in Fiore, nel settore del taglio boschivo illegale. Secondo l’accusa, il maresciallo avrebbe omesso controlli sulle imprese riconducibili alla cosca, intervenendo invece contro aziende concorrenti, in modo da garantire agli Spadafora l’aggiudicazione sistematica degli appalti.

L’indagine nasce nell’ambito della maxi-operazione “Stige”, che aveva svelato l’esistenza di una rete criminale radicata nella gestione del legname silano. Il Tribunale di Crotone, nel dicembre 2020, e successivamente la Corte d’Appello di Catanzaro, nel novembre 2023, avevano ritenuto provata la responsabilità del maresciallo, infliggendogli una condanna a 13 anni di reclusione, con l’applicazione delle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e della libertà vigilata per tre anni a pena espiata.

Le motivazioni della difesa di Carmine Greco

Nel ricorso presentato in Cassazione, la difesa di Greco, rappresentato dal professore avvocato Alessandro Diddi, ha articolato tredici motivi di impugnazione. Tra questi: mancanza di prove concrete a sostegno dell’ipotesi accusatoria di un “cartello boschivo” che avrebbe monopolizzato il settore; affidamento eccessivo alla testimonianza del collaboratore di giustizia Francesco Oliverio, la cui attendibilità era già stata messa in discussione in altri procedimenti; nessun riscontro a intercettazioni o altre prove tecniche: le indagini, nonostante l’uso di strumenti investigativi sofisticati, non avevano portato a elementi concreti contro Greco; errata interpretazione del concorso esterno in associazione mafiosa, con un uso eccessivamente ampio della norma, senza dimostrare un effettivo apporto consapevole al sodalizio; non adeguata valutazione della difesa, in quanto la Corte d’Appello non aveva analizzato una memoria difensiva depositata in appello contenente prove documentali a sostegno di Greco.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Cassazione ha annullato la condanna, ritenendo che la sentenza d’appello fosse viziata da gravi carenze motivazionali su diversi punti chiave. Per gli ermellini la prova principale sarebbe debole. L’intero impianto accusatorio si fondava sulle dichiarazioni di Francesco Oliverio, senza riscontri adeguati. La Corte ha ribadito che una chiamata in correità deve essere corroborata da elementi esterni e non può costituire da sola la base di una condanna. Si è parlato anche di assenza di una motivazione chiara sull’esistenza del “cartello boschivo”.

A tal proposito non sarebbe stato sufficientemente dimostrato che il settore del taglio boschivo fosse realmente controllato dalla criminalità organizzata. E ancora: rifiuto immotivato di rinnovazione dell’istruttoria. I giudici d’appello avevano respinto la richiesta di ascoltare nuovi testimoni senza giustificare adeguatamente la loro decisione.

Nella sentenza anche le presunte contraddizioni nella valutazione della confisca dei beni: il denaro sequestrato a Greco e ai suoi familiari non è stato adeguatamente collegato a flussi illeciti di denaro. Ed infine, ma forse il più importante, errore nella qualificazione del concorso esterno: la Corte ha ritenuto che non fosse stata dimostrata la volontà di Greco di agevolare il sodalizio mafioso. Qui entra in campo l'elemento psicologico del reato di concorso esterno in associazione di stampo mafioso. La palla torna quindi alla Corte d’Appello di Catanzaro che, tuttavia, non dovrà decidere su altre censure difensive cassate dalla Suprema Corte.