È stato audito in Commissione antimafia. Una documentazione complessa è stata depositata e si attende di comprendere i risvolti mentre la battaglia contro chi ha la memoria lunga continua, inesorabile. Tiberio Bentivoglio è ancora nel mirino della 'Ndrangheta. Passano gli anni, ma la 'Ndrangheta non dimentica. 

Non ha paura il testimone di giustizia, non di quei «pezzi di malacarne» che prima hanno cercato di intimorirlo chiedendogli il pizzo e poi, a distanza di quasi 20 anni sono tornati per dimostrare che quella scelta di denunciare non è stata perdonata.

«Sì, la ‘Ndrangheta non dimentica e ce lo disse un grande magistrato come Giovanni Falcone: per definire le mafie occorrono due animali. La ferocia della pantera e l'elefante, soprattutto per la memoria. Loro non dimenticano assolutamente, tramandano tra padre e figli o le loro cose. Io ho denunciato tantissimi anni fa e ho subito diversi attentati. Il mio negozio è stato distrutto più volte, ma l’evento più importante, il più grave, è stato il 9 febbraio 2011, quando mi spararono sei colpi di pistola alle spalle. Sono salvo grazie a un marsupio di cuoio. È risaputo che un commissario di polizia, quando venne in ospedale a visitarmi e interrogarmi, mi parlò di questa fatalità. Le mafie non dimenticano e non lo dimenticheranno mai».

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No, la ‘ndrangheta non dimentica e non perdona e questo chi sceglie di fare impresa in questa terra benedetta da Dio e maledetta dagli uomini, lo sa bene. E lo sapeva bene Tiberio quando il 12 settembre, giorno del suo compleanno è tornato in quel terreno a Ortì dove ha rischiato la vita.

Le minacce

«Quest'ultimo evento è avvenuto nello stesso giardino dove ho subito il tentato omicidio. Lo stesso posto dove, un paio d’anni fa, avevano piazzato una bombola piena di gas collegata a una miccia, sicuramente un avvertimento. Lo stesso luogo dove, circa sei anni fa, avevano posizionato una busta sul cancello contenente della salsiccia e un messaggio molto brutto: “Farai la fine di questa carne”. Ecco, tutte queste azioni servono a disturbare psicologicamente. E lo fanno nelle date che loro scelgono. Infatti, il ritrovamento di questo motocoltivatore bruciato nel mio locale è avvenuto il 12 settembre, giorno del mio compleanno. Ce ne siamo accorti quel giorno, ma la notizia l'abbiamo tenuta molto nascosta, e anche per molto tempo, affinché gli inquirenti potessero lavorare in silenzio, sperando in qualche errore da parte di chi ha voluto intimidirmi, magari un ritorno o una telefonata. L’abbiamo resa pubblica solo dopo un mese».

La testimonianza continua

Strisciante, astuta, cattiva. La ‘ndrangheta vuole fare paura proprio a chi a viso aperto l’ha sfidata. A chi giornalmente, con la propria testimonianza non si arrende e semina cercando di sottrarre le nuove leve, i giovani, al disgustoso fascino del crimine. E la storia di Tiberio sembrava essersi sopita. Niente di più sbagliato.

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«Quando qualcuno mi chiede se è da tempo che non ricevo segnali, rispondo no. Un anno e mezzo fa, senza farlo pubblicare, i lucchetti del cancello della mia casa al mare a Palizzi sono stati tagliati e abbiamo trovato un accendino sulla maniglia della porta d’ingresso. Non l’abbiamo dato alla stampa per consentire agli inquirenti di lavorare. Abbiamo subito chiamato la polizia, e stanno indagando. Qui la situazione è tale. Sono intervenuti anche i carabinieri, perché quella zona è sotto il controllo del maresciallo dei carabinieri di Ortì. Ha chiamato subito il Provinciale, è arrivato un tenente, e hanno svolto tutti i rilievi come da procedura. Poi sono andato in caserma a sporgere denuncia. Intanto i miei uomini della scorta, quella mattina, non mi hanno fatto entrare in giardino. Giustamente, avevano notato delle anomalie: si vedeva dell’acqua che usciva, i tubi dell’acqua erano stati bruciati. Mi hanno bloccato fuori dai cancelli, sono entrati solo loro, e poi abbiamo chiamato chi di dovere».

Le tante denunce 

Un evento che scuote, anche se la paura non sembra appartenere a Tiberio Bentivoglio, che ancora oggi continua a denunciare e a metterci la faccia. Ma il rammarico è che questo non sia il primo episodio e neanche l’ultimo. Infatti, ci sono molti altri fatti non balzati alla cronaca, che ancora oggi chiedono giustizia.

«Sì, sono stati tanti episodi non arrivati alla cronaca. Però ci sono tante piccole cose che i miei uomini della scorta relazionano ogni sera. Accadono anche eventi strani. Loro segnano tutto, quindi non necessariamente devo andare ai giornali, ma gli inquirenti devono lavorare costantemente, facendo una relazione su qualsiasi cosa anomala che riscontriamo durante la giornata. Anche stamattina è successo qualcosa di insolito, sarà relazionato in stretto riserbo. Andiamo avanti, senza paura, senza timore, specialmente quando mi reco nelle scuole a parlare, facendo i nomi e i cognomi dei mafiosi e degli 'ndranghetisti che hanno disturbato la mia vita e messo a repentaglio la mia salute psicologica e quella della mia famiglia. È giusto parlare così ai ragazzi; gli studenti vogliono sapere la verità. Non amano chi parla di antimafia per sentito dire, ma vogliono ascoltare chi ha conosciuto la 'Ndrangheta in carne e ossa, come è accaduto a me quel 14 marzo 1992, quando mi fermarono per strada per chiedermi il pizzo, mi fecero scendere dall’auto, mi intimidirono. Da lì iniziò la mia storia».

«Diamo molto fastidio – continua l'imprenditore –, perché quei ragazzi, una volta tornati a casa, parlano con i genitori, e qualche volta capita che i genitori si arrabbino. A volte intimidiscono anche qualche dirigente scolastico, lasciando messaggi che conosciamo, ma che non possiamo rendere pubblici. Inoltre, c’è un altro particolare: quando un obiettivo sensibile come me è controllato notte e giorno dalle forze dell’ordine, questo dà fastidio. Una volante o una gazzella passa ogni notte a controllare il portone e le auto. Questo disturba qualche vicino poco raccomandabile, qualche pezzo di malacarne, come li chiamo io. La città è molto “incartata”».

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Il ruolo delle istituzioni

Le istituzioni e lo Stato le sono stati vicini? «Sì, in passato ci sono stati procuratori che si sono impegnati, anche con posizioni diverse. Ultimamente, per esempio, in relazione all'ultimo danno causato dalla mafia, i carabinieri stanno lavorando. Sono stato interrogato dal comandante provinciale e mi hanno promesso che faranno di tutto. Non so a quale procuratore è stato assegnato il caso, né mi spetta saperlo. Vedremo cosa succederà. Rimango fiducioso, perché bisogna sempre sperare in un cambiamento».

Un cambiamento che Bentivoglio sta cercando di ottenere, ma non senza difficoltà. Ha anche denunciato che il termine "infame" viene spesso usato nelle scuole, un linguaggio che andrebbe estirpato.

«Sì, c’è da avere paura di questo fenomeno. Bisogna lavorarci. Ho letto in cronaca e sono andato subito a denunciare il fatto: è stata trovata una cartuccia con un messaggio molto brutto in un istituto scolastico dove avevo fatto una testimonianza sulla mafia. Ho subito chiamato la responsabile della scuola, mi ha assicurato che avevano già fatto denuncia. Poi mi sono recato dal comandante dei carabinieri provinciali e ho raccontato il fatto, portando la fotografia di quel messaggio e della cartuccia, trovati, mi pare, in un bagno della scuola. Ho chiesto se altri imprenditori o personaggi erano andati a parlare di antimafia in quell'istituto, e mi hanno risposto: “Quest’anno sei venuto solo tu”».