Il collaboratore di giustizia è stato interrogato questa mattina nell'ambito del procedimento che si sta svolgendo in Corte d'Assise a Catanzaro per far luce sull'omicidio del biologo vibonese avvenuto nell'aprile del 2018
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«I Vinci erano destinati a morire perché non abbassavano la testa». Ha reso dichiarazioni accusatorie nei confronti della sua famiglia, Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia escusso questa mattina nell'ambito del procedimento che si sta celebrando in Corte d'Assise a Catanzaro per far luce sull'omicidio di Matteo Vinci, biologo ucciso nell'aprile del 2018 a Limbadi con un ordigno piazzato al di sotto dell'autovettura a bordo della quale viaggiava assieme al padre Francesco Vinci.
Autobomba a Limbadi: i mandanti
L'udienza rientra nel primo filone d'indagine che ha portato alla sbarra i presunti mandanti dell'omicidio: Vito Barbaro, Rosaria Mancuso, Domenico Di Grillo e Lucia Di Grillo. Il collaboratore di giustizia è stato ascoltato in collegamento da una località protetta e su richiesta degli avvocati della difesa ha reso dichiarazioni sulle circostanze dell'omicidio. «Sapevo che vi erano contrasti riguardanti alcuni terreni familiari» ha raccontato precisando che all'epoca dei fatti si trovava in carcere e di aver appreso queste informazioni da Mirco Furchì che intrattaneva una relazione sentimentale con la cugina Rosina Di Grillo, sorella di Lucia e figlia di Rosaria Mancuso.
Autobomba a Limbadi: la relazione tra cugini
Su richiesta del sostituto procuratore, Andrea Mancuso, il collaboratore di giustizia ha chiarito che Mirco Furchì intratteneva «una relazione sentimentale con Rosina Di Grillo, intorno al 2012, e lavorava in campagna da mia zia. Si è affiliato al mio gruppo per il quale commetteva rapine, danneggiamenti ed estorsioni». Ha inoltre aggiunto di avere un rapporto molto stretto: «Uscivamo assieme, facevamo reati insieme».
Autobomba a Limbadi: le contraddizioni della deposizione
Ricostruendo le dinamiche familiari, Emanuele Mancuso ha poi chiarito che «Rosina Di Grillo era solita fare attentati ma in qualità di mandante non materialmente. Era un soggetto propenso a fare attentati a soggetti di peso, figuriamoci a questi due poveri vecchietti», il riferimento è ai coniugi Rosaria Scarpulla e Francesco Vinci, genitori di Matteo Vinci, entrambi presenti in aula e assistiti dal legale di fiducia Giuseppe De Pace. Il collaboratore è però poi incorso in contraddizione quando interrogato dall'avvocato di Vito Barbara, Fabrizio Costarella, ha dovuto ammettere l'incongruenza con precedenti dichiarazioni contenute in un verbale di interrogatorio. In particolare, in quella circostanza aveva riferito che vi era «una strategia familiare per far ricadere la colpa dell'attentato su uno dei sette fratelli di mio padre».
Autobomba a Limbadi: «Prima o poi ci scappa il morto»
Il collaboratore si è limitato a difendersi affermando che non era ciò che intendeva e incalzato poi dalle domande del sostituto procuratore ha tratteggiato il contesto entro il quale, dal suo punto di vista, sarebbe maturato l'omicidio: «Quando ci sono contese su terreni succede il panico - ha raccontato -. Se qualcuno si oppone alle richieste della mia famiglia, poi se ne deve andare. Ero a conoscenza di forti attriti con la famiglia Vinci e mi era stato riferito che era stati commessi attentati ma che non abbassavano la testa e che prima o poi sarebbe scappato il morto». Ha poi aggiunto, sempre su sollecitazione del pm, che «noi come famiglia controllavamo i terreni in maniera tradizionale e se qualcuno non si piegava era destinato a morire».