«Mio marito aveva i vestiti a brandelli, si rotolava nell’erba. Era tutto bruciato, tutto annerito. Matteo era nell’auto e le fiamme ed il fumo arrivavano fino al cielo», racconta Sara Scarpulla. «Ho provato a tirare fuori Matteo, ma era impossibile. Ero tutto bruciato, ricordo quando sono arrivati i carabinieri e mi hanno portato in ospedale. Quando arrivai mi presero per un extracomunitario, per quanto ero nero. Poi mi hanno portato a Palermo e poi non ricordo più niente», dice invece Ciccio Vinci.

Ciccio accetta di spogliarsi e di mostrare alcune delle cicatrici rimaste sul suo corpo, dopo l’attentato del 9 aprile del 2018, quando esplose l’autobomba che a Limbadi uccise suo figlio Matteo. Nella casa di via Giuseppe Valarioti tutto parla di quel ragazzo straziato da una esplosione che finì per colpire l’opinione pubblica italiana, spesso distratta sulla violenza delle mafie. Parlano di Matteo i quadri sui muri, le cornici sul mobilio, la cartella clinica che racconta il calvario sanitario di Ciccio. Tutto parla di Matteo, tranne quella comunicazione attraverso cui l’Inps avvisa il papà che la sua pensione viene rideterminata e che, non potendo rivalersi su di essa, dovrà pagare un bollettino da 454,81 euro: il conto per i suoi 78 giorni di degenza nell’Unità di Terapia delle Ustioni al civico di Palermo.

«È una ingiustizia – sbotta Sara – perché mio marito era lì certo non per sua scelta». In pratica, lo Stato copre fino a 29 giorni, quanto al resto serve un «conguaglio» a carico del beneficiario delle prestazioni sanitarie che, in questo caso, è una vittima di mafia, padre di un’altra vittima di mafia. «I medici mi hanno curato benissimo», dice Ciccio Vinci. Le cicatrici più evidenti sono quelle sul braccio: i tessuti ricuciti, ampie chiazze di pelle candida impiantata. Le gambe sono impressionanti: «Sembra un miracolo, no?», spiega Sara. In effetti si nota la differenza tra le parti degli arti in cui Ciccio è riuscito a salvare la sua pelle e quella impiantata, morbida e rosea, come quella di un neonato.

Alcune tracce dell’attentato sono state quindi rimosse chirurgicamente dal corpo di Ciccio Vinci, altre sono rimaste. Ci porge il braccio sinistro: «Tocca qui». Al tatto è evidente come sotto cute vi sia una sorta di grumo duro che si muove: «È un frammento di piombo, ne ho altri. Qui… Qui… Qui…». Ferite che si rimarginano, ferite che non si rimargineranno mai. «Mio marito era un uomo forte e vigoroso prima che affrontassimo tutto questo calvario. Ora è come se fosse un bambino piccolo nel corpo di un anziano. Bisogna assisterlo in tutto, in tutto», continua sua moglie.

La nostra visita segue di pochi giorni la pronuncia della sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro, che ha condannato all’ergastolo Rosaria Mancuso, sorella dei boss Giuseppe, Diego, Francesco e Pantaleone “l’Ingegnere”, e il genero Vito Barbara, quali mandanti dell’agguato. «Attendiamo l’appello – commentano i genitori di Matteo – Ma anche l’esito del processo a chi ha procurato e messo la bomba». Ma attendono, anche, l’esito del ricorso all’Inps: «Non è giusto che dobbiamo pagare, non è giusto. Non dobbiamo essere noi a pagare. Le vittime non dovrebbero mai pagare per quello che hanno già subito. Attendiamo risposte dall’Inps ma anche dalla politica, che di certe storture del sistema deve farsi carico».