Giuseppe Calabrò, uno degli esecutori materiali dell'omicidio Fava-Garofalo, ascoltato nell'udienza odierna del processo 'Ndrangheta stragista smentisce il contenuto di una lettera da lui stesso scritta e dice: «Solo mie fantasie». Ma per il procuratore aggiunto Lombardo fu minacciato dalla madre che lo spinse a rinnegare tutto
Tutti gli articoli di Cronaca
PHOTO
Minacciato dalla madre e costretto a ritrattare quanto aveva detto sullo zio e sul cugino, Antonio e Rocco Santo Filippone. Questa è secondo il procuratore aggiunto della Dda reggina, Giuseppe Lombardo, la ragione che lo ha spinto a raccontare un’altra verità, una verità che ha riproposto anche oggi nella nuova udienza del processo ‘Ndrangheta stragista in corso a Reggio Calabria e che vede alla sbarra Rocco Santo Filippone e Giuseppe Graviano, ritenuti i presunti mandanti degli attentati. Lui è Giuseppe Calabrò, uno degli esecutori materiali, insieme al pentito Consolato Villani, dell’omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo. «Mi vergogno di quello che ho fatto. È stata la giovane età, è stata incoscienza. Non mi ha mandato nessuno, non ci sono stati mandanti. Siamo stati noi ragazzi. Scellerati e ingenui. Gli unici responsabili siamo io e Villani». È questa la versione che consegna oggi, una versione che non convince per nulla il procuratore Lombardo, una versione che smentisce le sue stesse dichiarazioni rese all’inizio della sua collaborazione e che tenta così di giustificare: «Allora ho avuto paura di dire la verità, ero sotto pressione e ho inventato tutto».
Calabrò ripercorre i tre attentati, quello del 2 dicembre del 1993 dove rimasero feriti a colpi d’arma da fuoco i carabinieri Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo. Poi la strage di Scilla, l’omicidio Fava-Garofalo. Quattordici mesi dopo, nel febbraio del 1994 durante un posto di controllo rimasero feriti i carabinieri Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra. Attentati compiuti, a suo dire, per generare scalpore nel feudo dei Ficara-Latella, per attirare l’attenzione delle forze dell’ordine su di loro perché – dice il pentito - «volevano ammazzarmi». Per Consolato Villani – dice ancora – l’obiettivo era invece solo sottrarre le armi ai carabinieri.
Dopo il primo attentato in cui rimasero feriti due militari il secondo attacco. Febbraio 1993. «A distanza di un mese e mezzo abbiamo ripetuto questo gesto perché non siamo riusciti al primo tentativo. Ho rubato un Opel Astra e ci siamo diretti a Palmi attendendo una pattuglia».
«È stato un caso uccidere a Scilla»
Ma perché fino a Palmi? Incalza il procuratore Lombardo. Perché Palmi se l’obiettivo era colpire i Ficara-Latella? Ed è qui che Calabrò inizia ad arrampicarsi e ricostruire una versione che fatica a reggere. «Senza un obiettivo o una meta ci siamo recati a Palmi. L’obiettivo era seguire una pattuglia che andava verso Ravagnese, verso Reggio. È stato un caso, un errore, volevo uccidere vicino casa mia. Avevamo sempre lo stesso fucile e il mitra, l’obiettivo era andare verso Ravagnese ma poi ho proseguito così alla rinfusa. Il nostro obiettivo non erano carabinieri ma anche finanza, polizia, chiunque. Villani non sapeva che il mio obiettivo era colpire i Ficara-Latella. Scilla è stato un caso, ho sbagliato io ad avvicinarmi alla pattuglia li, la macchina ha accelerato e Villani ha sparato. Non era mia intenzione colpire a Scilla, mi è scappato l'acceleratore, era troppo vicino a loro».
«Sto qui a sentire le sue sciocchezze. Non utilizzi concetti logici falsi, l'agguato non è un caso » - lo ammonisce per l'ennesima volta Lombardo ma Calabrò continua: «Dalla piazzola di sosta di Bagnara abbiamo aspettato un’oretta, quando è passata la pattuglia siamo partiti, guidavo io, andavo talmente veloce che Villani ha preso l'arma e ha sparato, è stato un caso non volevamo sparare li, volevamo sparare vicino casa mia. Non ce l’abbiamo fatta a fermarci, era troppo rischioso e poi il mio fine non era prendere le armi, Villani credeva questo. Poi abbiamo proseguito fino a casa mia bruciando la macchina e abbiamo nascosto le armi».
Le armi nel terreno dell’ex maresciallo
Un fucile e un mitra. Erano sempre queste le armi utilizzate per i tre attentati. Ma dove erano nascoste? Chiede Lombardo. «Vicino casa mia, c’era un giardino e le abbiamo messe lì, sotterrate in un bidone, in un terreno non mio, non so di chi era, forse era di un ex maresciallo dei carabinieri in pensione. Non sapevo che il terreno fosse suo, l’ho saputo dopo, ho visto solo un terreno abbandonato e le ho messe lì. L'ho saputo dopo. Non so se Villlani lo sapeva, ma dopo l'ha saputo»
Il terzo attentato
Poi il terzo attentato. Il movente che riferisce Calabrò è sempre lo stesso. Colpire i Ficara-Latella. Obiettivo centrato per il collaboratore: «Abbiamo utilizzato sempre la stessa arma perché dovevano capire che i tre episodi erano collegati». Anche qui per Calabrò «la pattuglia dei carabinieri è stato un caso. Una pattuglia ci ha visto e ho sparato, avevo io il mitra davo le spalle alla strada».
Dopo il terzo attentato per Calabrò: «il fine era stato raggiunto. Le forze dell’ordine nel terzo hanno scoperto che era la stessa arma, è arrivato l’esercito, qui era pieno di posti di blocco, non si poteva più camminare per le strade. A me non mi ha mandato nessuno- ribadisce - non ci sono mandanti, siamo stati noi ragazzi».
Il rapporto con i Ficara-Latella e l'omicidio Marino
«Era legato a loro ma non ero stato battezzato – racconta Calabrò - Facevo parte della loro famiglia dal ‘91. Loro mi hanno insegnato ad utilizzare le armi. All'inizio li frequentava, stavo con loro così, mangiavo con loro, non avevo ruolo di ‘ndrangheta ed ero testimone di tante cose, ho iniziato a consumare azioni delittuose per loro ma non avevo alcun ruolo. Solo danneggiamenti, furti, atti intimidatori. Poi l’omicidio del vigile Marino fu l’azione più grave. L'incarico mi fu dato da Vincenzo e Pino Ficara, non so perché lo volevano morto. Era il primo omicidio, era aprile ‘93. Mi diedero 5 milioni. Poi da qui sono nati i dissapori, mi aspettavo di diventare qualcuno, mi aspettavo di ricevere un grado, di essere battezzato, era una mia aspettativa. Ho avuto discussioni con Vincenzo Ficara, volevo ammazzarlo, poi ho lasciato stare».
Quindi la frequentazione con Consolato Villani e l’inizio della rottura con i Ficara Latella: «Vincenzo Ficara mi chiamò e si arrabbio, dicendomi ingiurie. Ci rimasi male. Inziai a disinteressarmi di loro. Il rapporto si interrompe in modo brusco».
La collaborazione e la lettera
«Dopo il mio arresto nel '94 ho iniziato a collaborare ma ho detto cose non vere sotto pressione. Alcune dichiarazioni dell'epoca erano sbagliate, una parte non vera era che gli attentati erano dovuti al traffico di armi. Ho messo in mezzo persone innocenti. Ero sotto pressione, avevo paura. La mia famiglia era ignara di tutto quello che avevo fatto, all'inizio non volevano venire con me. Mi dicevano che avevo rovinato la famiglia, loro non volevano andare via da Reggio». Poi l’interruzione della collaborazione del ’98: «La mia famiglia voleva andare in Calabria, avevo detto cose non vere, mi sentivo sporco per aver coinvolto persone che non c'entravano. Ho interrotto la collaborazione anche perché c’era la mia famiglia in Calabria».
A questo punto la deposizione si sposta sulla lettera, quella lettera che Calabrò scrisse mentre era detenuto al procuratore nazionale antimafia Grasso e corretta dal detenuto che condivideva con lui la cella Luca Goglino, quella lettera che oggi Calabrò considera frutto della sua fantasia: «L’ho scritta così ma quella lettera fa pensare che sia un attacco terroristico ma niente era vero. L'ho scritta io ma non so neanche io perché l'ho scritta, per gioco, ho scritto tra me e me. per caso Goglino ha visto la lettera e ha corretto in italiano. Ho scritto questa lettera così... Sono vere sono le dinamiche dei carabinieri, il resto no».
La parte non vera, ci tiene a ribadirlo, è che non ci sarebbero mandanti: «Dottò, dopo 25 anni sono stanco a me non me ne fotte di mio zio (Filippone ndr). Oggi sto dicendo la verità. Non so perché ho scritto quella lettera, è pure fantasia. Oggi dico la verità».