«Sono un innocente nelle grinfie di folli». Così si chiude la lettera che Giancarlo Pittelli ha inviato alla sua ex collega parlamentare Mara Carfagna e che, nella giornata di ieri, gli ha riaperto le porte del carcere. Il noto penalista, imputato nel maxiprocesso Rinascita Scott, era stato scarcerato solo poche settimane fa, ma quella missiva inviata alla Carfagna è stata considerata dal tribunale di Vibo Valentia come una violazione degli arresti domiciliari e, accogliendo la richiesta della Dda di Catanzaro, ha rispedito Pittelli in prigione.

Una violazione che Pittelli, da giurista, è cosciente di compiere: «Non potrei avere rapporti di corrispondenza con nessuno ma ti prego di credere che sono ormai disperato. Sono detenuto – si legge nella lettera – in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri e asseverate dalla giurisdizione asservita».

«L’accusa di concorso esterno rimasta in piedi nei miei confronti consisterebbe nell’avere rivelato ad esponenti della cosca di ndrangheta denominata Mancuso il contenuto dei verbali secretati delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Andrea Mantella»

Pittelli contesta la ricostruzione degli inquirenti, accusandoli anche di «manipolazione» di alcune conversazioni ambientali finite nell'inchiesta. «L’indizio – afferma l’avvocato – sarebbe rappresentato dal contenuto di una conversazione telefonica captata nel corso della quale, il 12 settembre 2016 io, interloquendo con un cliente, ho affermato: “dice (dicunt) che ha scritto (il pentito) una lettera alla madre e che accusa il fratello».

A sostegno della sua tesi, Pittelli cita la Cassazione che, «come sai meglio di me è il giudice del provvedimento e non del merito, ha preso atto del fatto che della lettera scritta dal pentito alla madre i quotidiani calabresi ne avevano già parlato alcune settimane prima del 12 settembre. Di contro ha ritenuto efficace il riscontro costituito dall’affermazione circa le accuse mosse nei confronti del fratello: fatto che avrei potuto apprendere soltanto dalla lettura dei verbali non ostesi».

«Gli è però – contesta Pitelli – che l’accusa nei confronti del fratelli è fatto che si è verificato effettivamente alcuni mesi dopo il 12 settembre 2016 e, dunque, vi è la prova, in atti, che la mia altro non era che la corretta lettura di una previsione agevolatissima da comprendere attesa la caratura criminale della famiglia del collaboratore».

«Vi è in atti – attacca il penalista – della manipolazione di un’altra captazione ambientale. Nel novembre 2016, infatti, nell’ultima interlocuzione avente ad oggetto le dichiarazioni del pentito, io affermo di non poter dare consigli in quanto “non sappiamo cosa dirà costui”. Gli inquirenti aggiungono alla frase l’avverbio “ancora”».

«Nelle mie interlocuzioni – commenta Pittelli nell’ultima parte della missiva alla Carfagna – (esiste prova documentale copiosissima) io discuto con i miei clienti solo di verbali omissati già versati dalla procura nei vari dibattimenti in corso. Affermo che esistono 250 omissis e da qui la considerazione sull’effetto devastante che avranno le dichiarazioni del pentito sulla criminalità del comprensorio. Tutto qui. Non ti nascondo nulla, ti rappresento la verità dei fatti…Ti chiedo di non abbandonarmi perché sono un innocente finito nelle grinfie di folli per ragioni che rivelerò alla prima occasione. Aiutami in qualunque modo, io vivo da due anni in stato di detenzione, finito professionalmente, umanamente e finanziariamente».

Probabile che Pittelli non immaginasse che quella lettera, la sua amica Mara Carfagna l'avrebbe inviata alla'Ispettorato di pubblica sicurezza di Palazzo Chigi e da lì sarebbe arrivata prima alla squadra mobile di Catanzaro e subito dopo sulla scrivania del procuratore capo Nicola Gratteri. Quella missiva, infine, è stat usata dall'ufficio di procura per chiedere e ottenere il ritiro degli arresti domiciliari e il ritorno in carcere al tribunale di Vibo.