«Compà, se succede un fatto del genere ce la passiamo tutti male». È con queste parole, rivolte a emissari dei clan cassanesi, che nel 2020 Francesco Patitucci avrebbe evitato la consumazione di un omicidio di mafia nella città di Cosenza. È uno dei dettagli più sinistri che emerge dagli atti dell’inchiesta, in particolare dalle ormai celebri intercettazioni ambientali raccolte nell’abitazione del boss.

Quella del 2 aprile lo vede a colloquio con il fidatissimo Michele Di Puppo, e per l’occasione, tra la pianificazione di un crimine e l’altro, il padrone di casa gli confida che qualcuno, dalla Sibaritide, gli ha chiesto un piacere: «Venire dentro Cosenza a fare un danno», che tradotto dagli investigatori, in gergo criminale equivale a «un’azione di fuoco». 

Un omicidio in trasferta, però, richiede sempre il via libera da parte di chi comanda nel luogo designato per l’esecuzione, e in quel caso Patitucci non concede il permesso del caso. «Non me ne frega niente» chiarisce all’amico, e secondo la Dda di Catanzaro il suo rifiuto è motivato dal timore che, a seguito di un’azione eclatante come quella, siano proprio lui e i suoi uomini a pagare dazio in termini di «pressioni da parte delle forze dell’ordine».

A tutt’oggi, l’identità della persona finita allora nel mirino dei cassanesi non è stata ancora accertata, e di certo c’è solo che due anni fa Patitucci gli ha salvato la vitaO forse ne ha solo rimandato l’appuntamento con il destino. Non è chiaro, infatti, se l’omicidio sia stato commesso altrove in epoca successiva e in un territorio in cui l’autorizzazione dei cosentini non era più indispensabile.