Così potenti, così radicati, così organizzati da far arrivare le armi via posta. Da trasformare il magazzino di un ufficio postale in un covo per il recapito e lo smistamento di micidiali bocche di fuoco. Così dice Andrea Mantella. Così, a suo, dire, sarebbe stato almeno fino al periodo in cui prese parte alla pianificazione del letale agguato al boss Raffaele Cracolici, consumato il 4 maggio 2004 a Pizzo, grazie al quale il clan Bonavota annichilì il clan dei cosiddetti «Palermo», egemoni tra Maierato e Filogaso, e allargò il dominio del locale ’ndranghetista di Sant’Onofrio nelle aree limitrofe.

 

L’indagine italo-svizzera

Il 7 novembre del 2018, Mantella – ex rodato killer e padrino emergente di Vibo Valentia, oggi collaboratore di giustizia – è davanti al team italo-svizzero che indaga sugli affari internazionali di Rocco Anello, capomafia di Filadelfia, vertice di un impero criminale che la Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e i reparti d’élite della Guardia di finanza, hanno smembrato grazie alla recente maxioperazione Imponimento.

 

Anche questa – per dirla con il procuratore Nicola Gratteri – è ’ndrangheta di Serie A. Con ramificazioni, canali di riciclaggio, traffici, partnership criminali che vanno oltre quella striscia di confine tra il Vibonese ed il Lametino divenuta nota alle cronache italiane come il buco nero della lupara bianca.

 

Il fucile nel Dash… alla posta

«Io so che le armi andavo a prenderle stranamente alla posta di Curinga», spiega Mantella. Preposti alla consegna erano i fratelli Fruci, considerati il vertice del gruppo criminale di Curinga federato e subordinato al clan di Filadelfia. «Dai Fruci – continua il collaboratore – sono andato io e Francesco Fortuna, come già le ho riferito, e giustamente loro non è che mettevano in chiaro o per paura delle microspie o insomma, dicevano “Aspettate qui”. Lui andava all’ufficio postale in magazzino e prendeva le armi, addirittura un fucile smontato nel fustino del Dash lì, insomma, però questo arrivava da Torino. Insomma arrivavano i pacchi lì in quell’ufficio lì».

 

Dai Balcani alla Calabria

La gola profonda spiega come le armi talvolta provenivano indirettamente anche da quella che per lustri è stata la fonte di approvvigionamento prediletta della criminalità organizzata calabra: «i Balcani». Ferri corti e lunghi, armi automatiche soprattutto, magari residuati delle guerre che condussero alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia piuttosto che acquistati a costi irrisori sul mercato nero di una vasta area di confine tra Europa ed Asia, segnata da profonde crisi politiche e sociali. Spiega come a fare da ponte, tra i Balcani, la Svizzera dove insisteva una succursale del clan Anello, e la Calabria, terminale ultimo di ogni traffico, fosse il Piemonte, dove era presente una cellula forte e radicata, del clan Bonavota. Mantella: «Diciamo lui (Rocco Anello, ndr) si avvaleva lì e portavano queste armi. Le facevano venire pure all’epoca dai Balcani con la marijuana e l’hashish, che si facevano questi scambi là in Puglia insomma. E queste armi le mandavano pure a Reggio Calabria dai Morabito, li mandava Bonavota, perché Bonavota è legato ai Morabito-Palamara. Una vecchia amicizia con suo padre».

 

Armi a quattro soldi

C’era così tanta offerta che anche i prezzi praticati giù in Calabria sarebbero stati stracciatissimi: «Si prendevano i kalashnikov a 800 euro; 600 euro; 500 euro, questo. Tanto ne avevamo…». Il campionario era vasto. Sempre Mantella: «Portavano, diciamo quelle armi le Spas 12, quelli che praticamente si usano pure per le blindature. È un fucile che ha un caricatore così, poi c’erano vabbè le pistole. Queste qui, le pistole. Il piatto forte loro era delle pistole che a quel magazzino lì delle Poste era più facile. Che praticamente lì in Svizzera le pagavano pochi euro e qui poi le vendevano 1.500, 1.200, 1.300, 900 insomma… Di tutti i generi, tutti… di tutti i generi. Praticamente non lo so se lei lo sa. Le Cz, le Cecoslovacchia, la P38. Poi le 38 Special. Insomma queste qui…».

 

Un attentato eccellente

Quelle armi dovevano servire anche per consumare un attentato eccellente, quello all’allora sostituto procuratore antimafia di Catanzaro Marisa Manzini. Un obiettivo, specie del clan Bonavota, del quale alla Dda di Catanzaro, qualche anno prima, aveva riferito un altro pentito eccellente, Vincenzo Marino, ex armiere del clan Vrenna di Crotone. Dovevano essere usati dei «fucili», riferisce Mantella: «I Bonavota li volevano usare per conto della dottoressa Manzini. Vabbè, era una sua vaga aspirazione».

 

Anziché seguire lo stragismo, però, il clan avrebbe ripiegato su uno strumento decisamente meno rischioso, la delegittimazione: «Poi l’hanno denigrata con quei volantini là all’interno del Tribunale insomma. Hanno cercato. Io non mi permetto di dire».

 

Il tesoro nel «pozzo»

Lo snodo cruciale (ed è questo il motivo dell’interrogatorio) resta la Svizzera, il feudo estero degli Anello. Il forziere nel quale – dice Mantella – arrivavano perfino lingotti d’oro dalla Calabria. Venivano realizzati grazie alla fusione dei preziosi rubati dai tossicodipendenti nelle piazze di Vibo e Lamezia Terme. E arrivavano, in Svizzera dall’Italia, fiumi di soldi sporchi che sarebbero finiti in quello che chiamavano «il pozzo», l’insieme delle cassette di sicurezza che oltre frontiera tenevano i tesori del clan al riparo dalle aggressioni patrimoniali. Una ricchezza enorme, figlia di traffici, di armi e soprattutto di droga, e di riciclaggio, anche di auto. Un autentico impero che conferma, qualora ce ne fosse bisogno, che la ’ndrangheta è ben lontana dall’essere solo una questione calabrese.