Nella sanità calabrese del 2018 può accadere anche di entrare al pronto soccorso un venerdì sera alle 10 e uscirne il martedì successivo alle 9 di mattina. È quanto capitato a Francesco Raffa, 67 anni, originario di Zungri, che è restato ben 4 giorni nel pronto soccorso dell’ospedale Jazzolino di Vibo Valentia, in attesa che si liberasse un posto letto nel reparto di cardiologia, che però non è mai saltato fuori.

 

Una piccola odissea cominciata venerdì 4 maggio, quando l’anziano - che già soffre di pericardite, un’infiammazione cardiaca cronica - avverte un dolore lancinante al petto. La guardia medica gli consiglia di recarsi al pronto soccorso della città capoluogo, dove arriva accompagnato dalla moglie e dai due figli. L’accettazione lo registra in entrata alle 21,52. Ne uscirà soltanto martedì 8 maggio, alle 8,55.

 

I primi esami a cui viene sottoposto escludono un infarto, ma emerge la necessità di altri accertamenti da effettuare in regime di ricovero. Inizia quindi una interminabile e incredibile attesa.
«I medici sono stati efficienti e li ringrazio per come si sono presi cura di me - sottolinea Raffa -. Ma ciò che non è ammissibile è che una persona venga parcheggiata in un pronto soccorso per 4 giorni, senza un minimo di assistenza, senza pasti, costretto in una stanzetta angusta e maleodorante con altre 4 brandine dove si alternavano i pazienti che arrivavano per le cure più urgenti».

 

 

Raffa non dovrebbe stare lì. Ma il posto in reparto non c’è, non si trova. L’attesa prosegue.
«Le prime 30 ore le ho passate su una sedia – racconta – con accanto mia moglie e i miei figli. Se non fosse stato per loro non avrei potuto né mangiare né bere. Quindi mi chiedo: se uno ha la sfortuna di non avere chi possa prendersi cura di lui, come fa?».

 

Il tempo passa lentissimo e 30 ore sono lunghe su una sedia. L’anziano capisce che si deve arrangiare. Adocchia una lettiga incustodita e la porta nella stanza dove lo hanno sistemato: finalmente ha un letto. Una specie di letto.

 

«Neppure una coperta per comprimi di notte, né un cuscino dove appoggiare la testa - continua – ma la cosa che più mi è rimasta impressa è lo spazio angusto, da condividere con gli altri pazienti. Stavamo talmente stretti che neppure il personale addetto alle pulizie riusciva a fare il proprio lavoro. Lo ripeto, non è colpa dei medici, che hanno fatto il possibile, ma di strutture sanitarie che non funzionano».

 

Più volte nel corso di quei 4 giorni viene proposto all’uomo di firmare le dimissioni volontarie e andarsene a casa. Richiesta sempre rifiutata dal paziente, nella convinzione che prima debba avere una risposta definitiva sul suo stato clinico.
Così, in attesa di un posto in reparto che non si materializza, si arriva a martedì mattina, quando l’ospedale decide di dimetterlo, prescrivendogli una terapia da continuare a casa e nuovi accertamenti da eseguire nei giorni successivi.

 

Raffa finalmente si prepara a uscire. Ma mentre sistema le sue cose per tornare a casa, viene richiamato in modo brusco da una dottoressa che l’ha scambiato per un parente infiltrato: «Lei chi è? Che ci fa qui?». Mentre cerca di spiegare che è un paziente dimesso da poco, nasce un alterco con il medico.
«Sono stato aggredito verbalmente», sottolinea ricordando la concitazione del momento. A causa della lite averte un nuovo malore. I protocolli del pronto soccorso si rimettono in moto e il personale del nosocomio gli prospetta nuovi accertamenti proponendogli di restare. «Per carità… basta un tranquillante». Il tempo di calmarsi dopo aver assunto il farmaco, poi l’anziano scappa via stringendo il foglio di dimissioni come un biglietto per il paradiso: casa sua


Enrico De Girolamo